Massimo Troisi. Il cinema dei sentimenti (2° parte)

Ecco la 2° parte del nostro ricordo di Massimo Troisi, l’unico in grado di far saltare in aria la dicotomia cinema d’autore/cinema comico, cinema impegnato/cinema popolare

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Stravolgere i luoghi comuni

Quando Troisi trionfa con Ricomincio da tre, gli italiani sono già cambiati molto, ma il cinema di quegli anni non se n’è ancora accorto. Il successo arriva perché il nuovo spettatore cinematografico (che è molto più giovane, in media, del passato), vede che finalmente c’è qualcuno che racconta storie in cui potersi riconoscere, con le difficoltà a comunicare, a relazionarsi agli altri, ad affrontare i problemi di ‘affetti’ giornalieri. E lo fa non seriosamente, ma facendoci ridere sopra, ironizzando ed esorcizzando paure e ritrosie al cambiamento. In questo, Troisi viene a caratterizzarsi come una sorta di ‘Truffaut italiano’, piccolo ‘geniale’ poeta della quotidianità. E questo lo si capirà meglio proprio quando al brillante esordio farà seguire (dopo la straordinaria parentesi televisiva di Morto Troisi, viva Troisi, in cui filmava – incredibile premonizione! – nel 1982 una sua prematura scomparsa, con tanto di interviste ad amici e personaggi dello spettacolo e montaggio di brani di sue partecipazioni a trasmissioni televisive) un film che fece tutto meno che cercare di sfruttare quel filone ‘nuova Napoli’ nato dopo Ricomincio da tre e morto subito dopo, anche e soprattutto per il mancato ‘traino’ del personaggio Troisi.

Troisi ‘muore’ e ‘rinasce’ con Scusate il ritardo, del 1983, film incredibilmente intimista e cupo (intimista lo era anche il primo, ma appariva talmente diverso e ‘fresco’ che nessuno se ne accorse) in cui comincia la distruzione sistematica del personaggio che lo aveva portato al successo. Per cui ecco questo Vincenzo logorroico, assillante, egocentrico, insensibile, disattento, in un film talmente malinconico che se non fosse Troisi potrebbe benissimo far piangere. La malattia d’amore, l’afasia dei sentimenti, l’incomprensione, la mancanza di passione, di tenerezza, una Napoli tutta ‘interiore’, quasi azzerata nei paesaggi (è cupa, piovosa e nuvolosa, tutto il contrario di quello che ‘dovrebbe essere’): insomma, un campionario di pura emozionalità umana, concentrato di personaggi e situazioni, film secco e crudele che andava a scontrarsi apertamente con le aspettative correnti.

Insomma: lascia la Smorfia all’apice del successo televisivo, opera la sistematica distruzione del suo personaggio di successo di Ricomincio da tre e, quando nel 1984, in coppia con Roberto Benigni in Non ci resta che piangere, trionferà nuovamente ai botteghini, farà in modo che anche quella sia una nuova – e da non ripetere – esperienza. In questo c’è da dire che Troisi è stato un folle e geniale promoter di se stesso: non si è ‘abbassato’ ai livelli del pubblico-massa, così come lo avrebbero voluto politici e imprenditori nazional-popolari, piuttosto si è ‘elevato’ a quello dello spettatore-soggetto, quel consumatore attivo che in quegli stessi anni era protagonista nelle serate di Massenzio, nel cuore dell’Estate Romana inventata da Renato Nicolini. Troisi era talmente ‘ricco’ di idee, e contemporaneamente talmente ‘pigro’ e desideroso di non ‘sprecare’ il proprio talento, che era continuamente affascinato dal cambiamento, dal rischiare, dal giocare con cose nuove. Non poteva (non sapeva) svendersi. Poteva solo vendere ciò che era, cioè se stesso e la propria fervida creatività.

Perciò seguiva sempre l’istinto e il ‘piacere’ (e soprattutto), lo stare con persone con le quali era in sintonia). Quindi, dopo l’intimismo di Scusate il ritardo, si getta nel puro divertissement di Non ci resta che piangere, film stupendamente sconclusionato, con una sceneggiatura folle che fa acqua da tutte le parti, ma ugualmente amato dal pubblico che seppe riconoscerne l’onestà e la genuinità del suo divertirsi-lavorando, in quella specie di ‘complicità perversa’ che lo legava al più surreale e incontenibile (ma anche meno cinematografico e più ‘cataclisma’ televisivo) Roberto Benigni.

Deviare le aspettative del pubblico, inventarsi titoli ogni volta più assurdi e indipendenti dal ‘testo’, prendere delle figure, delle ossessioni, delle immagini/tema e capovolgerne il segno: questo il gioco di Troisi. In Le vie del Signore sono finite, del 1987, la malattia diviene strumento, forma comunicazionale estrema, non solo sofferenza; la bugia non è più la ‘menzogna’, l’essere falsi e repellenti: è un qualcosa  di ‘umano’, una piccola debolezza che spesso ci aiuta a vivere meglio, altre volte no, ma è comunque parte della piccola quotidianità del nostro mondo. L’amicizia come caposaldo di tutto il suo cinema.  Cinema, appunto, di rapporti, ma dove amicizia e amore la fanno da padroni.  Ed è in fondo per stima ed amicizia che in due anni interpreta tre film con Ettore Scola,  prima, nel 1989, Splendor e Che ora è?, entrambi accanto a Marcello Mastroianni, mentre l’anno successivo interpretò un malinconico Pulcinella in Il viaggio di Capitan Fracassa.

 

L’amicizia e l’amore, il mèlo comico

In ogni film c’è una storia d’amicizia e una storia d’amore, fino a Pensavo fosse amore e invece era un calesse, che fu “programmaticamente” un film sull’amore., forse l’opera di maggiore consapevolezza del suo cinema.

Ma l’amicizia sembra sempre qualcosa di ‘forte’, passionale, mentre l’amore è spesso ‘più freddo della morte’. Come si possa far ridere con un amico disperato che vuole uccidersi perché la donna l’ha lasciato, con un personaggio come il Vincenzo di Scusate il ritardo, che mentre Anna gli parla d’amore si distrae per ascoltare le partite; con uno come Camillo che mette in scena una bugia dopo l’altra allo scopo di riconquistare l’amata e di farsi accettare/aiutare dagli altri, ebbene questo forse lo sapeva solo Troisi.

Carpire il segreto della sua comicità non è facile, però c’è da dire che nessuno come Troisi abbia saputo sondare gli umori e le ansietà degli anni ’80. Una sensibilità acuta tutta istintiva, ma non ‘improvvisata’, che sapeva anche, comunque, improvvisare.

Troisi sapeva prendere dei personaggi, inserirli in contesti ‘leggeri’ alla Truffaut ma con carichi ‘pesanti’ di relazioni interpersonali alla Fassbinder. Prendeva i sentimenti dei personaggi e li metteva  a nudo, li spogliava di ogni corteccia, e sapeva divertire – misteriosamente, è forse vero allora che tanto più qualcosa è tragico tanto più diviene comico… – lavorando sulle pulsioni, sulle emozioni dello spettatore che, tra il divertito e lo sconvolto, si trovava ad essere colpito da tutte le parti.

Ed eccolo dopo diverse operazioni al cuore, cimentarsi, malato, nella sua ultima opera: Il postino (1994), dal romanzo di Antonio Skármeta, commovente mélo ambientato negli anni ’50, fu fortemente voluto da Troisi che ne fu l’interprete, al fianco di Philippe Noiret e dell’esordiente Maria Grazia Cucinotta, e di cui firmò solo la sceneggiatura. In realtà, pur firmato da Michael Radford, il film fu, a tutti gli effetti, nella sua malinconica finezza, una sua opera e una sorta di piccolo testamento cinematografico (Troisi morì poco dopo le riprese, il 4 giugno del 1994). Troisi aveva espresso più volte la propria insoddisfazione per l’incapacità di sapere utilizzare – anche politicamente – il proprio ruolo di personaggio, “sento che potrei fare di più, prendere posizione, indignarmi di più, ma pubblicamente”.  E in questo suo ultimo ruolo, interpreta questo umile postino che cerca di utilizzare l’amicizia conquistata con il grande poeta Neruda (ancora l’amicizia…) per imparare a conquistare con le parole giuste la donna amata, con la celeberrima frase “la poesia non è di chi la scrive ma di chi la usa”, meravigliosa acquisizione della consapevolezza che è il pubblico il vero “proprietario” delle storie, del cinema.  E il film termina proprio con una manifestazione, quasi un piccolo atto di ribellione, come a voler raccontare un “impegno” di un tempo che non c’era più…

Genio incompreso del cinema  italiano, seppe raccogliere e contemporaneamente influenzare aree ben più vaste della sua generazione e collocazione geografica (Napoli, ancora a proposito dello stravolgere i luoghi comuni…). Come ci parlavamo verso la fine del XX secolo, come ci raccontavamo stancamente, i nostri amori insoddisfatti, la centralità (e l’afasia, appunto) dei sentimenti, la famiglia come volano di trasmissione del consenso e della stabilità sociale, l’impossibilità della coppia, e tanto altro ancora: cosa c’era di più ‘politico’ di questo?

Ripensandolo oggi, 38 anni dopo, possiamo dire che Ricomincio da tre segnò un punto di svolta possibile, non compreso, una meravigliosa isola solitaria nella storia del cinema italiano, anche se ovviamente tutti oggi lo inseriscono nell’ondata dei “nuovi comici” di allora, meravigliosamente messa alla berlina proprio da Massimo in quell’ospizio per i “nuovi comici” con Nichetti, Arbore, Verdone (e Benigni)  in Morto Troisi Viva Troisi!. Il cinema italiano poteva scegliere di abbandonare per sempre la dicotomica cinema d’autore/cinema comico, cinema impegnato/cinema popolare. Massimo Troisi aveva il genio e il talento per far saltare all’aria tutte queste categorie, regalandoci film complessi e semplici, divertentissimi e romantici, malinconici e appassionati, sempre comunque magnificamente vivi e amati dal pubblico. Peccato non averne saputo coglierne le grandi possibilità che quell’imprevedibile successo apriva, forse oggi avremmo un altro cinema italiano…

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