Master of Horror. Dario Argento e il cinema

Ho sempre l’impressione di girare lo stesso film…
Dario Argento
 
C’è un’immagine forte, particolare, esemplare, nell’ultimo film di Dario Argento, La terza madre: la protagonista, Sarah (Asia Argento), dopo aver combattuto e vinto (?) la sua battaglia contro le streghe esce fisicamente fuori – insieme al poliziotto che l’ha aiutata – dal lungo e infinito tunnel sotterraneo, aprendo un varco verso l’esterno, verso la luce. È un’immagine quasi statica, estremamente pittorica, dove i due personaggi sono al centro del quadro, appena usciti da questa buca nella terra, immersi in un paesaggio urbano con riferimenti iconografici anche piuttosto astratti, eppure molto romani, nel senso di “classici”.
In questo quadro pittorico/cinematografico improvvisamente Sarah esplode in una risata forte, stridula, nervosa, un po’ delirante ma assolutamente liberatoria. E il film si chiude senza aggiungere altro, come se non ci fosse null’altro da aggiungere.
La terza madre Dario ArgentoC’è tutto il cinema di Dario Argento in questa immagine che, un giorno, i nostri posteri forse studieranno con la stessa attenzione maniacale con la quale oggi gli studiosi affrontano i dipinti di un Caravaggio. Un cinema che non ha bisogno delle parole. Un cinema che non ha bisogno (quasi) di storie. Un cinema che non ha bisogno del(l’ipocrisia del) realismo.
Un cinema che ha invece solo, dannatamente e necessariamente solo, bisogno di essere consumato. Un cinema che ha disperatamente bisogno del (suo) pubblico.
È infatti l’esperienza forte, diretta, del “consumo del pubblico” una delle grandi virtù che rendono fondamentale, al di là dei gusti estetici/politici/cinematografici diversi, il cinema di Dario Argento. Un cinema che “godardianamente” non ha bisogno della critica, ma che si nutre esclusivamente del “sangue degli occhi” del suo pubblico.
Insomma, per dirla provocatoriamente, è un cinema che ha bisogno del pubblico come una medicina ha bisogno, per avere senso, di un malato. Forse, per continuare ed estremizzare questo concetto, è un cinema che ha bisogno di un pubblico malato. Perché, più di ogni altro possibile cinema contemporaneo, quello di Dario Argento appare sempre più come un qualcosa di terapeutico (lo dice lo stesso Argento: “Stavo male, poi ho girato il film e mi è passato tutto…”), un qualcosa che ha più a che fare con i disturbi di Gad e di Dap che con l’estetica cinematografica (1). Come i medicinali omeopatici il cinema di Argento si nutre del male per liberarsene, ovvero – straordinariamente in anticipo a suo tempo e in grande sintonia con il mondo di oggi – per combattere quella “paura della paura” che costituisce il male di vivere del XXI secolo.
Tutti gli uomini hanno paura. Tutti. Chi non ha paura non è normale…” ha scritto un tempo Jean Paul Sartre, ed ecco che questo cinema sintomatico, questo sguardo patologico, questo continuo gioco di ossessioni (visive e sonore soprattutto, perché il cinema di Argento è fatto di magnifiche “architetture dello sguardo”, di “corpi strapazzati”, di continui oltrepassare le “porte della percezione”) trova proprio negli umani-non umani, ovvero in quel che resta dell’uomo post-catastrofe, il suo naturale destinatario.
Ed allora ecco che questo fantastico ragazzo di 68 anni, che da ragazzino tremava di fronte a Biancaneve e i sette nani (che gli ispirò Suspiria…), che scappa di casa a 16 anni per formarsi nella Parigi dell’esistenzialismo e della nouvelle vague, che vive il cinema in famiglia, imparandone ad apprezzarne i generi come territorio/linguaggio popolare, ma dentro le dinamiche del ’68 e degli sperimentalismi delle novelle vague, che scrive con Bertolucci C’era una volta il west di Leone, che ha iniziato come critico cinematografico per “Paese sera”, che è tra i pochissimi ad usare lo story-board come struttura pronta per un cinema che “si monta girando”,….
…. Insomma questo cineasta adorato e odiato, l’unico autore/genere del cinema italiano (e non solo), può non piacere alla maggior parte della critica, può apparire “povero” con le sue storie inverosimili, i suoi attori trasformati in corpi, le sue musiche ossessive, ma resta, ancora e sempre più oggi, uno dei pochi “artisti della visione”, capaci di raccontarci, di parlare delle nostre vite, le nostre follie, le nostre ansie, le nostre paure, le nostre illusioni, i nostri sogni… ovvero il nostro mondo prima (mentre, durante) che le cose accadono.
 
Note:
1. (il cosiddetto D.A.P, Disturb Panick Attack è noto come “attacco di panico” e nella popolazione generale sembra oscillare tra lo 0,5 e il 3 per cento. Il “disturbo d’ansia generalizzato”, Gad, è la presenza di ansia e preoccupazione, chiaramente eccessive rispetto alle situazioni reali, che si manifestano per la maggior parte del tempo. Il disturbo interessa circa il 5 per cento della popolazione generale).
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