The Matrix Awakens: is this the real life? is this just fantasy?
The Matrix Awakens ha lanciato una nuova versione dell’Unreal Engine che dimostra fino a dove è possibile arrivare con il virtuale nella next gen. E’ arrivato il tempo del cinema-ologramma?
Lo scorso venerdì notte, sul palco dei The Game Awards, è stato lanciato il primo prodotto fruibile in Unreal Engine 5: Matrix Awakens. Una breve demo che mostra fin dove è possibile spingersi con il nuovo motore grafico next gen. Di puro gameplay, non c’è quasi nulla, se non una breve sparatoria e la possibilità di guidare veicoli in giro per la città. È possibile però, dopo aver conosciuto una versione ringiovanita di Keanu Reeves (è vera o no?), perdersi nel fotorealismo sempre più sorprendente del nuovo motore grafico, prendere il controllo del personaggio o abbandonarlo e volare sulla mappa dominando interamente una città che nel frattempo continua a vivere e pulsare. I palazzi non sono più muri grigiastri fatti in blocco, al loro interno adesso ci sono stanze super dettagliate dove è possibile spiare il PNG di turno che guarda il notiziario o che fa altre azioni comuni. Si lavora sempre di più quindi su un mondo virtuale che prende vita. La visione della Rockstar per cui anche nelle sessioni off di GTA V e Red Dead Redemption i personaggi continuano a muoversi e a svolgere attività, sembra sempre più implementata. Tutto ciò che era stato predetto nel 1999 dalle Wachowski e che ha portato il mito della caverna ad un nuovo livello, sembra pian piano diventare realtà. Ad oggi, non sembra ancora possibile entrare in ogni edificio e perdersi ancor di più all’interno delle mappe, ma la possibilità messaci a disposizione dalla demo di poter modificare i parametri grafici a nostro piacimento, dalla posizione del sole alla quantità di traffico, ci fa comprendere come il mondo dei videogame si stia sempre più aprendo al videogiocatore. Non sembra più un pensiero utopico quello di poter, in futuro (magari in qualche titolo Rockstar) aprire qualsiasi porta presente nella mappa, modificare qualsiasi tipo d’arredamento, interagire con qualsiasi personaggio e avere una libertà sempre più totale che garantisce esperienze di gioco sempre diverse.
La conquista di nuovi spazi è da sempre argomento centrale nella storia dell’umanità. Come J. F. Kennedy parlò di nuova frontiera quando gli astronauti raggiunsero la Luna nel 1969, quando si parla di virtuale ormai si deve parlare di nuova frontiera 3.0. Spazio dove si ha la possibilità di modificare e plasmare a proprio piacimento la realtà. Le possibilità date dalla computer grafica hanno permesso, solo negli ultimi anni, di far interpretare a Leonardo DiCaprio, in un mini sketch presente in Once Upon a Time in Hollywood, la parte che fu di Steve McQueen in La Grande Fuga. È stato possibile ringiovanire De Niro e Will Smith e addirittura sostituire un’attrice con una sua versione totalmente digitale, come nel caso di Sean Young in Blade Runner 2049. L’innovazione tecnologica e il virtuale ci dà quindi la possibilità come divinità greche di creare la vita. Ed il cinema contemporaneo, oggi ancor più di prima, continua a ragionare su queste tematiche. Possiamo dire infatti che anche il cinema si sta aprendo allo spettatore che setta, come il videogiocatore, i propri parametri per la visione e trova nelle piattaforme streaming o nelle esperienze in VR delle costanti fughe dalla realtà dove vivere o semplicemente conoscere, in due ore, nuove vite comodamente da casa.
È un mondo sempre più spinto verso le visioni di Ernst Cline ed il suo Player One. Dove la terra inquinata e sovrappopolata è abitata da individui in stato di indigenza che come unico svago hanno quello di entrare dentro OASIS (che permette addirittura di entrare dentro Shining). Un mondo virtuale, totalmente gratuito dove la vita reale è subordinata a quella virtuale e dove le soluzioni per migliorare la realtà sono nascoste all’interno del videogioco.
Altra figura di riferimento è Zak Penn, regista di Incidente a Loch Ness, ma soprattutto sceneggiatore non solo dell’adattamento del romanzo di Cline girato da Spielberg nel 2018, ma anche di un altro film centrale uscito quest’anno: Free Guy di Shawn Levy. Se in Ready Player One fulcro della narrazione diventava il mondo virtuale come Escape Room dagli orrori di quello reale, in Free Guy fulcro diventano i PNG, personaggi non giocanti che prendono coscienza di se stessi. Tutto il set up iniziale di Free Guy è costruito sulla grossa domanda: “ma mentre i nostri personaggi principali fanno missioni, guidano auto truccate e sparano all’impazzata, cosa fanno i personaggi secondari, quelli che fanno da contorno?” Molto probabilmente leggono il giornale dentro un palazzo inaccessibile di Matrix Awakens. In Free Guy per una falla, un bug, quegli stessi personaggi che prima erano solo di contorno, diventano all’improvviso personaggi con una vita propria, che vivono emozioni e che si ribellano al controllo del videogiocatore. Tutto questo è ciò verso cui si sta spingendo il videogame nel contemporaneo. Implementando l’accessibilità e la modificabilità, ma via via riducendo le vere e proprie fasi di gameplay. Anzi, forse il gameplay oggi è proprio questo, vivere un’esperienza, un percorso tra comunità virtuali sempre più reali e città a cui modificare la posizione del sole. Chi se ne frega dello sparo, voglio andare a nuovi concerti di Travis Scott su Fortnite o magari a vedere nuovamente Capolavoro di Emanuelle Pasorelli a Los Santos. E in un mondo dove Tom Holland non ha nemmeno bisogno di presentarsi davanti ai giornalisti per rispondere alle domande, ma basta il suo ologramma come nella presentazione guidata da Cattelan dell’ultimo Spider-Man: No Way Home, non sembra più assurdo come un tempo pensare ad un cinema dove anche lo spettatore costruisce le sue visioni senza la necessità di essere presente in sala.