Maurice Pialat, il cinema in sospensione

Aveva ragione Pialat (morto all'età di settantasei anni dopo una lunga malattia) ad opporsi alla museizzazione dell'immagine cinema, lui che non ha mai avuto bisogno di un'immagine, ma soltanto di un set in cui agire una messinscena composita basata sul nulla dello spazio, sull'azzeramento del tempo.

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"Ciò che ci resta del cinema è cosa per appassionati, ma il cinema non è fatto per essere un vecchio feticcio nostalgico".

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Quando ci scorrono di fronte (per un'ultima/ immensa/r ipetuta volta i frammenti sparsi del cinema di Pialat, non possiamo fare a meno di riavvolgere le menti in un rewind catastrofico e necessario che ci trasforma in esegeti impazziti di un testo/monumento che non dovrebbe mai essere. Aveva ragione Pialat (morto  all'età di settantasei anni dopo una lunga malattia che ultimamente gli aveva anche negato la possibilità di dedicarsi ai suoi progetti) ad opporsi alla museizzazione dell'immagine cinema, lui che non ha mai avuto bisogno di un'immagine, di un testo, ma soltanto di un set in cui agire una messinscena composita basta sul nulla dello spazio, sull'azzeramento del tempo. E' questa la grande lezione di Pialat, il suo profondo senso di non arrestabilità davanti alle aporie schermate di uno sguardo insistito, eppure meravigliosamente marginale, latente, quasi invisibile, lontano mille miglia da una stabilizzazione statica del proprio essere. Nacque nel 1925 in una cittadina francese di provincia, Cunhlat, nel Puy de Dome, con una famiglia disgraziata alle spalle. La madre è una donna molto impegnata che in casa non si vede quasi mai, il padre beve fino a giungere ad un livello di abbrutimento che il piccolo Maurice non dimenticherà mai. Ecco dunque come i primi anni della sua vita scorrano all'insegna della solitudine, della povertà, ma soprattutto dell'isolamento. Lo stesso che accompagnerà Maurice tutta la vita. Ci troviamo alla fine degli anni '50 e la Nouvelle vague incomincia a raccontare che un cinema diverso è possibile, e con esso la fuoriuscita liberatoria e antiaccademica di tutti gli umori repressi in quegli anni. Ma Maurice non è tipo da inserirsi in nessuna corrente. Ha trentacinque anni, è da qualche anno ormai che si dedica al cinema con dei piccoli film amatoriali in grado di precorrere i tempi, ma non di viverli. Difatti sino al suo film d'esordio (non a caso L'Enfance Nue,1968) Pialat è un illustre sconosciuto per gran parte del cinema francese d'allora In che modo dirlo il cinema? Ma soprattutto in che misura agirlo, quando il monolite millenario di una cultura, assiso nelle parti alte dello schermo, continua a sedurci col suo semplice esserci, un'essenza travestita da essenza che inganna, dissimula, maschera? Pialat non si è posto il problema, o meglio, è riuscito a mutarlo di segno. Filmare non significa soltanto immortalare un quid transitorio in fotocopia leggibile/illeggibile del Reale, ma anche inventarsi una forma espressiva della perdita.

La sospensione dunque, l'anatomia insignificante del lasciarsi vivere/girare attorno al fantasma attonito della presenza. Non ci piace parlare di lui soltanto ora (momento spettrale della mancanza quasi definitiva, rilanciata però in flagranza mai esaustiva di senso), ma forse è solo in questo momento che tutto il suo cinema acquista quella parvenza ancor meno definita del solita, ancor più angusta, sicuramente più oscillante. E' un testo refrattario all'incasellamento, un vuoto immaginifico riempito da un corpo avvolto da un fuoricampo ora ancor più forte, una superficie densa e uniforme mai mostrataci per intero, ma sempre suggerita, accennata, tratteggiata nel silenzio del dopomorte. Del dopo-amore. Come nella sua opera quasi prima (L'amante giovane, 1972, che venne dopo L'Enfance Nue) in cui si filma già l'assenza del cinema, quell'attimo estetico/estatico in cui resta il sussurro di una voce in assenza di corpo, e in cui il solo girare tra le stanze di una casa è già lo scoppiare incredulo di un set buio, luce nera su sfondo grigio. Non serve più la m.d.p, non esiste un mezzo che riesca a penetrare la cortina ansiosa dello smarrimento, lungo le triangolazioni inquiete di un occhio che ha già visto/ sentito/ amato il proprio scacco, la propria disintegrazione nella prospettiva del melò impossibile. Post nouvelle vague, post cinema tour court forse, se non fosse che Pialat soprattutto nelle sue prime opere ci indicava che il cinema non esiste senza un gioco ininterrotto con la possibilità di essere ancora corpo narrante (è in questo forse il senso della sua disgiunzione siderale da ogni scuola e/o movimento espressivo), ipotesi scombinata di planimetrie inspiegabili se non portate all'estremo, se non destrutturate/scalfite internamente dal fuoco ardente dell'essere in gioco, dell'essere soprattutto per il gioco. In Loulou (1980) va in scena la terribile automaticità dell'insignificante, del già girato, nell'esperire lo scotto della passione per la passione, in cui non c'è spazio per il pieno del filmato, ma soltanto per la ciclicità aleatoria della confessione, sempre contenuta in uno spazio già oltrepassato, sfinito nel labirinto semantico di una frontalità senza scampo. La protagonista è un automa capace di aderire alla perfezione ad un certo status sociale (sposata da tanti anni con un uomo, perfettamente inserita nella griglia sintattica giusta) fino allo spaesamento, alla conversione, al raggiro mortale su se stessa, mentre incontra il sublime Depardieu che le fa girare la testa (movimento a zonzo che tanto piaceva ai frati minori del Francesco Giullare di Dio rosselliniano), mostrandole un'altra via, all'interno di un percorso/set differente.

Si inizia come si finisce, l'importante è raccontare quello che c'è in mezzo (il Godard di Pierrot Le fou aveva detto qualcosa di simile), ma si tratta più che altro di mirare ad un progetto estetico su cui Pialat ha praticamente lavorato da sempre: svuotare l'atto di un senso primario, investendolo di un cromatismo raggelato (e umanissimo/ singhiozzante/ sbilanciato) che lo disponga sul piano della visione quale perfetto oggetto sconosciuto. E' la realtà della ragione che non regge, tradita dal corrispettivo sensistico che va oltre, travolto dal procedere di una mancanza di controllo che fa nuovi vortici, che produce nuove conoscenze. In Ai nostri amori (1982) (film d'esordio della Bonnaire) Pialat accumula appunti di viaggio, passa da un set all'altro con aperture prospettiche da brivido, scolpisce il corpo dell'adolescenza in grido disperato e traballante di aiuto, rifà il cinema degli esordi per cosmopolizzare ogni punto di fuga, ogni puntino luminoso che diventa improvvisamente insufficiente, precario, agonizzante. L'interno del cuore, l'esterno del corpo riconfigurato per l'occasione nel ritratto di un'adolescente che non vuole più saperne della famiglia, che vuole evadere, allontanarsi, fuggire. E' il solito falso movimento, la stessa intensità retrospettica di un guardarsi allo specchio del tempo, sorprendendosi nell'atto di rivedere i cascami annebbiati del corpo che era, in un quadro d'insieme che non conosce confini. Come il delirio di Sotto il sole di Satana (Palma d'Oro al Festival di Cannes nel 1987) in cui Pialat si interroga sul senso della concettualizzazione (Bene, Male e così via dicendo) senza per questo mostrarci nuovamente il vuoto imperante di un set disabitato, l'insignificanza estrema del gesto cinematografico, il suo andare a scoprire porzioni di terreno che continueranno ad essere avvolte dal buio spettrale della invisibilità. E' la corrispondenza immagine/segno a mancare come ci viene mostrato in Van Gogh (1991), operazione filosofica che forse non ha pari negli anni 90', in cui il regista arriva a congiungere almeno tre livelli espressivi in una dimensione iconica in cui convivono tutti gli estremi della pittura nel cinema, pur avvalorandosi di una carica formale assolutamente nuova. La fine poi in Le Garçu (1995), in cui Pialat dirige seguito dalla moglie che sceneggia il film e dal figlio che vi recita. Ancora più estremo di Garrel forse nell'esibire la diretta filiazione umana e autobiografica di una "cosa", Pialat denuda una volta per tutto il cinema da ogni segno superfluo, si priva perfino di un oggetto a cui rivolgere lo sguardo e costruisce una macchina passionale che non ha eguali, un denudamento progressivo di ogni tipo di risonanza per nascondere e al tempo stesso mostrare Verità, Arte, Menzogna, Vita, raggruppando ogni schema preconcetto in un clima disperato, lancinante, vitale. E' la sintesi perfetta di tutto quello che il cinema ha il dovere di dire (di provare a dire), è una dichiarazione di guerra e d'amore alla Vita, al Cinema, al Corpo. E' un inno d'amore a tutto quello che si è vissuto. Ai rimpianti, agli odi, alle delusioni. Forse ancor di più agli sbagli fatti e mai più recuperati. Non è cinema verità, non è documentarismo da quattro soldi, ma non è nemmeno simulazione artificiale. E' semplicemente vita. Ripresa/ filmata/ amata quando non se ne accorge.

LINK


http://www.france.diplomatie.fr/culture/france/cinema/dossiers/galerie/realisateurs/82.html


http://www.allocine.fr/personne/fichepersonne_gen_cpersonne=1852.html


http://www.well.ac.uk/cfol/maurice.asp


http://www.sunderland.ac.uk/~os0tmc/contem/pialat.htm


http://www.ac-nice.fr/etabs/bristol/Audiovisuel/pialat.html

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