Max Von Sydow, l’immortale

Il profilo approfondito sull’attore svedese scomparso lo scorso 8 marzo. Dal sodalizio con Bergman, a L’esorcista, Fuga per la vittoria e Minority Report, ecco le tappe decisive della sua carriera.

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Il sole compie il suo alto arco nel cielo, e io Antonius Block gioco a scacchi con la morte.
Da Il settimo sigillo, di Ingmar Bergman, 1957

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Pensavamo fosse immortale. Lo vedevamo immutato e immutabile in ogni nuovo film. Con la sua espressione nordica, enigmatica, eppure amichevole perché avevamo imparato a conoscerlo quando ancora andavamo al cinema quasi con i calzoni corti. Quando ancora, nelle sale parrocchiali passavano i film delle tre B (Buñuel, Bresson, Bergman). Ma è roba d’altri tempi, d’altra vita.
Max Von Sydow aveva lavorato fino al 2018. Un highlander, un po’ come De Oliveira, lui simbolo di una immortalità cinematografica raffinata e inesauribile, l’attore svedese invece, simbolo di una altrettanto immortale passione declinata per il vasto pubblico, per quel cinema che resta e sedimenta, che ha modificato anche il nostro modo di pensare oltre che colorare i nostri ricordi. Sempre signorile e austero, quindi naturalmente nordico nei suoi atteggiamenti, Max Von Sydow, nonostante tutto, non è stato immortale, è invecchiato e ci ha lasciato, dopo essere stato l’attore del cinema del silenzio di Dio, ma anche l’attore mainstream in quei film che all’epoca pensavamo fossero di consumo e che oggi, ci accorgiamo, che fanno parte della nostra formazione. La sua immortalità si è forse dissolta, lasciandoci legati a quelle storie in cui la sua presenza era una sicurezza, proprio in una domenica di insicurezze, in cui le contingenze sanitarie facevano chiudere i battenti delle sale, rimandando a casa i sogni ad occhi aperti del pubblico.

Avrebbe compiuto tra un mese 90 anni. Appassionato di recitazione e di teatro sin da giovane, quando, all’inizio degli anni ’50 del secolo scorso, si segnalò come uno degli attori più promettenti della scena svedese. Dopo gli esordi giovanili, l’incontro con il cinema. Il suo rapporto con questo mezzo ebbe un inizio folgorante, tanto che la sua è stata una carriera che sembra scritta al contrario. Il suo primo film è del 1951, un ormai dimenticato La notte del piacere di Alf Sjöberg, un adattamento di del dramma strindberghiano La signorina Julie. Dopo questa prima interpretazione, Max Von Sydow ebbe sicuramente la fortuna, ma anche le qualità artistiche, per infilare, uno dopo l’altro, una serie di film tutti fondamenti assoluti di quel cinema di ricerca interiore e di specchio delle incertezze dell’anima dubbiosa, come lo erano quelli del genio svedese Ingmar Bergman. I titoli di questa saga del cinema del dubbio e della ricerca del divino che l’autore svedese, insieme a pochi altri, seppe mettere in scena, mostrando al mondo come anche lo spirito dell’uomo possa essere scrutato attraverso il film, dimostrano l’ansia di incessante indagine su questi temi: Il settimo sigillo (1957), Il posto delle fragole (1957), Alle soglie della vita (1958), Il volto (1958), La fontana della vergine (1960), Come in uno specchio (1961). Difficile trovare altri attori che abbiano potuto ripetere una prestazione del genere. La ricerca di Bergman, regista che gettò le fondamenta per un cinema introspettivo, dispositivo di studio e sperimentazione e da qui la sua prolifica produzione, come strumento consequenziale con il quali esternare i dubbi dell’anima, ritrovava nelle glaciali, ma al contempo, mai sicure, incerte e interrogative espressioni di Von Sydow, il migliore mezzo espressivo rispetto alle domande che il suo cinema costantemente offriva ai suoi spettatori.

Con queste credenziali Max Von Sydow si è presentato all’attenzione del mondo dello spettacolo, con la sua sensibilità di interprete di questo mondo così complesso dimostrata con il regista forse più ostico da affrontare in quegli anni. Eppure, nonostante il notevole background, ha anche saputo dimostrare attenzione verso un cinema più di consumo, portando con sé quell’inseparabile bagaglio che la sua carriera gli aveva permesso di maturare. È così che l’attore svedese rivestì anche i panni di personaggi più popolari sapendoli rendere anche qui icone di un’epoca e di un genere. Ma la sua fama, ancora negli anni ’60, era legata ai ruoli mistici, ai dubbi dell’anima e quindi a all’idea di religione. Forse per queste ragioni, prima di cimentarsi in altri ruoli che lo avrebbero affrancato da quest’aura mistica e ieratica che i film di Bergman avevano costruito attorno al suo lavoro d’attore, si dedicò, in continuità con i lavori precedenti, a due film che sui temi della religione e della pratica dei dettami del cristianesimo. Il primo fu il kolossal di George Stevens, La più grande storia mai raccontata, del 1965, nel quale rivestì i panni di Gesù e, successivamente, nel 1966, Hawaii di George Roy Hill nei panni di un prete che prova ad evangelizzare gli isolani. Dopo questa parentesi seguì un altro periodo di lavoro sotto la direzione di Bergman con ben tre film in due anni: L’ora del lupo, La vergogna, entrambi del 1968 e Passione dell’anno successivo.
Il futuro della carriera di Max Von Sydow sembrava tracciato. I suoi personaggi nel cinema erano quelli carichi comunque di un fascino intellettuale, sia che interpretasse con la regia di Pollack la spia Joubert in I tre giorni del Condor (1975), sia che, in Flash Gordon, di Mike Hodges (1980), fosse il cattivo imperatore Ming. La cattiveria che portava nel personaggio era comunque sempre unita ad una non comune carica di naturale rigore morale. Questi divennero tratti inconfondibili che lo avrebbero accompagnato per tutta la sua carriera anche quando interpretò film di genere di minore caratura rispetto ai precedenti.
Nonostante questo lavoro e quello futuro che avrebbe fatto sui set di tutto il mondo, venne quasi dimenticato dall’Academy Awards e il suo nome non comparve mai o quasi, tra quelli in lizza per la statuetta, solo per Pelle alla conquista del mondo, di Billie August del 1987 avrebbe ricevuto una nomination.
Nel 1973 arrivò il ruolo in L’esorcista di William Friedkin che contribuì ad arricchire il profilo di quella quasi segreta aura di attore incline ai ruoli meditativi e perplessi. Il suo esorcista, padre Merrin, crediamo davvero completi e chiuda il cerchio di questa fase della vita artistica dell’attore svedese. Ancora una volta, la sua figura, dopo il Block di Bergman in Il settimo sigillo, diventa l’icona di una paura ancestrale che quel film sa comunicare anche a distanza d’anni tanto da diventare, sotto il lampione che illumina nel suo fascio di luce la pioggia battente, il manifesto del film. Da qui in poi è davvero arduo ripercorrere la carriera di Max Von Sydow. La sua vita artistica diventò internazionale con un febbrile lavoro sui set con due o tre film in un anno. Film di genere e d’autore, o di entrambe le categorie e tanto per fare qualche esempio, negli anni immediatamente successivi al film di Friedkin girò anche: Gli avventurieri del pianeta Terra del semisconosciuto Robert Clouse del 1975, Cuore di cane, per la regia di Alberto Lattuada (1976), Cadaveri eccellenti, di Francesco Rosi (1976), Il deserto dei Tartari, di Valerio Zurlini (1976).
Un breve estratto, questo, dalla sua ricca filmografia che è impossibile riportare per intero, basti ricordare alcuni titoli tra i quali alcuni autentici capolavori e altri famosi per l’autorevole mano che li ha diretti: La morte in diretta, di Bertrand Tavernier del 1980, Dune di David Lynch del 1984, nel 1986 Hannah e le sue sorelle con la direzione di Woody Allen, con Wim Wenders nel 1991 girò Fino alla fine del mondo e, sotto la direzione di Steven Spielberg, nel 2002 sarà nel cast di Minority Report, ben due grosse produzioni nel 2010 lo vedranno interprete di Shutter Island di Martin Scorsese e di Robin Hood di Ridley Scott, la sua ultima grande produzione alla quale ha partecipato è Star Wars: il risveglio della forza di J.J. Abrams nel 2015. In questi anni la sua fama si affermò anche per altri ruoli di cattivo che gli vennero affidati, due in particolare, quello dell’ufficiale nazista in Fuga per la vittoria di John Huston del 1981 e dell’antagonista cattivo del buono James Bond in Mai dire mai di Irvin Kershner del 1983. Gli intervalli tra tutti questi titoli sono pieni di un cinema di altrettanta qualità che hanno saputo rendere Max Von Sydow un attore prezioso per il magnetismo naturale che lo possedeva, un attore che come tutti, nonostante le speranze, non poteva essere immortale, ma che il cinema saprà rendere sicuramente indimenticabile nella sua austera e ieratica figura in cui le incertezze e le sicurezze della vita sapevano coniugarsi e manifestarsi sempre con altrettanta nitida chiarezza sullo schermo sul quale compariva la sua rassicurante presenza.

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