Maya, donne-moi un titre, di Michel Gondry

L’ennesima prova di una fantasia infinita, capace di giocare al cinema col niente. Questo “cinema di papà” è eternamente bambino. Eternamente vivo. BERLINALE75. Generation Kplus


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Forse bisognerebbe considerare sotto un’altra ottica la parabola della carriera di Michel Gondry. Apparentemente disegna una curva discendente, dal grande exploit degli inizi del 2000, che lasciava presagire un futuro sulla cresta dell’onda, a una progressiva marginalizzazione, con progetti sempre più piccoli, appartati, di nicchia (tranne, forse, la serie Kidding con Jim Carrey, sebbene non abbia mai avuto un seguito). Eppure, questo è solo il punto di vista dell’industria. Presa da una diversa prospettiva, si tratta di una carriera vissuta sotto il segno della reinvenzione, pur nella coerenza di toni e di temi. Una continua variazione di formati, pratiche, obiettivi… Maya, donne-moi un titre è l’ennesima prova della fantasia infinita di Michel Gondry, capace di giocare al cinema col niente. Ma stavolta a supportarlo c’è l’immaginazione della piccola figlia Maya, che mette in moto lo slancio creativo con le sue proposte, quelle tracce che se ne infischiano di ogni logica e verosimiglianza. E che, naturalmente, sfidano il padre a lasciarsi andare a briglia sciolta sul terreno a lui più congeniale, a mettere in pratica i segreti del suo mirabolante libro delle soluzioni.

Il punto di partenza è proprio in questo gioco tra padre e figlia, ideato quando Maya aveva appena tre anni. Costretti a star distanti per gli impegni di Gondry negli Stati Uniti, ma legati da un rituale: “dammi un titolo e io ne faccio un film”. Ed ecco, quindi, una serie di storie e di invenzioni, che hanno sempre per protagonista la bambina: Maya e il terremoto, Maya e la nave del ketchup, Maya e i tre gatti ladri e così via… Tutto realizzato in cutout animation, con un dispositivo creato da Gondry a partire da uno smartphone e da un’infinità di disegni e ritagli di carta, mossi con le mani e ripresi a passo uno. 12 fotogrammi per ogni secondo.

Sì, è decisamente un film per bambini, Maya, donne-moi un titre. “Infantile”, direbbe qualcuno, magari con un certo “imbarazzo”. Ma non tanto perché si nutre di storie suggerite dall’immaginazione di una bambina o perché è, prima di ogni altra cosa, un tributo d’amore di un padre nei confronti della figlia. Lo è soprattutto nella misura in cui solo uno sguardo bambino può riaffermare l’assoluta libertà dello spirito dalla minaccia e dalla tirannia delle cose. Esattamente come i ragazzini e i neonati che giocano sulle cime dei palazzi sconquassati dal terremoto, nella prima trama da disaster movie del film.

Ma la realtà dov’è? Bè, è tutta questione di piani. Perché, in verità, il cinema di Gondry si è sempre mosso in questa morsa lacerante, che si sviluppa nella contrapposizione tra la forza eversiva della fantasia e il prezzo da pagare per stare al mondo. Basti pensare a Se mi lasci ti cancello, alla tragica parabola di Mood Indigo, dove lo stesso regista “dottore” si rende conto di non poter neanche salvare i suoi personaggi. Ma questo conflitto è ciò di cui si nutre la pratica stessa di Gondry, che non può rinunciare alle cose, alla materialità dell’agire, alla concretezza di un cinema che si pensa e si fa innanzitutto “con le mani”. Nello spazio reale di un set da attraversare, smontare e rimontare a partire dagli oggetti che si hanno a disposizione, dai margini, i ritagli, gli scarti, i vecchi dispositivi… Eppure è un cinema che non si arrende al ricatto e alle strette maglie del realismo, al grigiore delle idee, delle sensazioni e delle emozioni. Assumendosi anche il rischio di essere sfacciatamente bidimensionale, come in questi disegni di Maya, donne-moi un titre.

Potrà essere anche fuori moda l’arte del sogno di Gondry, testardamente analogica, condannata a essere tagliata fuori dalle magnifiche sorti del nuovo dominio globale digitale. Ma afferma comunque il primato di una produzione dal passo lento, “artigianale”. Di una modalità di creazione delle immagini che sembra risalire agli albori delle lanterne magiche, a un tempo antecedente alla rivoluzione industriale. Certo, Gondry non ignora i nuovi strumenti, anzi… Ma non si lascia incantare dalle malìe dello strapotere tecnologico del mondo meccanizzato, delle illusioni del post. Perché sta tutto dalla parte del fare, dell’azione creativa. Un’arte magica del riutilizzo, che ridà vita ai ritagli, che resuscita le immagini dall’oblio della smagnetizzazione, della perdita dei dati.

Quando nel finale, la piccola Maya corregge i credits dichiarando “Un film de mon papa” tutto si compie. Questo “cinema di papà” è tutt’altro che vecchio. È eternamente bambino. Eternamente vivo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.3
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