MedFilm Festival 2022 – Lotte, diritti e ideologie

Nei lungometraggi del concorso ufficiale il MedFilm Festival si occupa di temi di stringente attualità, dal ruolo delle donne alla guerra, dalla religione agli ideali, tra progresso e tradizione

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Per raccontare un paese va bene qualunque storia, contano piuttosto il modo ed i toni, i corpi e le parole scelte per ricreare un clima simile all’originale. Until tomorrow del regista iraniano Ali Asgari fa parte di un filone molto prolifico, dove l’aderenza con la realtà si manifesta attraverso la narrazione delle ingiustizie di un sistema iniquo e vessatorio. A farne le spese sono soprattutto le donne, costrette spesso in posizioni subordinate, impegnate a lottare per i diritti fondamentali in un mondo ancora dominato dai maschi, forti di uno scudo religioso costruito sulla paura e l’ignoranza. Fereshteh è una ragazza arrivata a Teheran dalla provincia che ha avuto una bambina, tenuta nonostante il padre le abbia negato il suo appoggio. Nata al di fuori del matrimonio alla piccola manca ogni minima tutela legale, a partire da un semplice documento d’identità utile a certificare la sua esistenza. La situazione si complica quando i genitori di Fereshteh, all’oscuro di tutto, decidono di farle visita, e lei deve trovare qualcuno disposto ad occuparsene per una notte. Comincia a quel punto una ricerca mortificante, emergono insensibilità, disinteresse, egoismo, lo squallore di un ricatto e tutta l’assurdità di una situazione che dimentica di aiutare chi ha bisogno. E porta alla luce anche il problema del divario generazionale, altro aspetto di fanatismo paranoico usato per confondere il rispetto della tradizione con la devozione assoluta. Quello del gravidanza fuori dal matrimonio è un tema affrontato anche in Sofia, di Meryem Benm’Barek, ma mentre il film ambientato in Marocco trovava origine dentro un conflitto di classe, questo si sviluppa prevalentemente in un discorso di genere.

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Rojek è un documentario canadese diretto Zaynê Akyol sulle drammatiche conseguenze di una guerra contro l’Isis combattuta dall’esercito curdo. Mostra i campi allestiti sul confine di Siria e Turchia e raccoglie le testimonianze dei detenuti jihadisti. Un film incendiario, girato tra le macerie ed i campi ridotti in cenere, simboli di un ideale distrutto dall’odio e dalla violenza, esteticamente interessante e dai temi macabri. Sul terreno resta il vuoto personale e collettivo, restano le bugie di un sogno motivato dall’avidità di denaro e potere. Ci sono le vittime e ci sono i carnefici, ma il centro è riservato ad un popolo martoriato suo malgrado. Omicidi, sequestri, stupri, nelle parole rivive l’orrore, prima di scivolare nel presente fatto di polvere, di celle e donne abbandonate, di profughi ammassati impegnati a sfuggire al destino loro assegnato. Addestramento militare, traffico di armi, reclutamento, il resoconto del conflitto serve solo a confermare quanto in realtà la guerra sacra sia stata solo un pretesto per destabilizzare un’intera area a scopo di lucro. Di come la religione possa diventare strumento di manipolazione della stupidità umana. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Marx docet.

You Have To Come And See It di Jonas Trueba è uno di quelli che si definiscono piccoli film, già solo per la durata di poco più di un’ora. Tempo sufficiente al regista spagnolo per allestire un’opera dal carattere minimalista su due coppie, sulla vita e sul mondo che ci circonda. Musica e filosofia (quella di “Devi cambiare la tua vita” di Peter Sloterdijk) fanno da apripista, funzionano come interruttore ed agevolano un flusso di parole, scambi, confidenze, paure e desideri. La forma è quasi documentaria, e la trama si snoda tra Madrid e la provincia, dalle schematiche strade notturne della capitale allo sguardo assolato della campagna aperta e selvaggia. L’aggiunta di versi nel prologo e nell’epilogo, e la lettura di qualche passo di un libro, spingono lo spettatore verso la riflessione, stimolano delle corde esistenziali, confermano la tesi dello studioso tedesco succitato, ovvero che la filosofia in profondità scorra ovunque. Le aspettative e la delusione, lo spettro del passato e quello del presente e pochi ingredienti ad alto tasso calorico in un quadro realistico sono sufficienti a raccontare una storia, ovviamente in divenire, che parla di loro e parla di noi. Del mondo che abbiamo, del mondo che vogliamo. Delle utopie abortite. Di un mucchio di idee, sconnesse, radicali, impossibili, temerarie. Così lontane eppure così vicine. The Last Queen di Damien Ounouri e Adila Bendimerat, anche protagonista del film nel ruolo della regina, è un film invece di carattere storico ambientato in Algeria nell’anno 1512. Va da sé che le attenzioni maggiori siano dedicate alla messinscena ed ai costumi. La vicenda politica, derivata da battaglie ed alleanze vere o presunte, serve agli autori per dare credito ad un tema di stringente attualità, ossia quello di una donna disposta a combattere per difendere la propria casa e i propri cari in una società orientata a gravitare sulle figure maschili. Diviso in cinque atti, si compone di elementi opposti ma complementari e la ragione di stato il risultato non della logica quanto delle passioni umane, tradimenti, vendette. Un passaggio complicato e non troppo riuscito. La visione resta ingessata, le manca la disperazione, la furia della situazione, ed il quadro scenografico resta preciso ed anemico. Il valore aggiunto, lasciando da parte il verosimile, resta l’intenzione di spostare la cronologia della questione di genere in direzione delle origini. Per avere ulteriore conferma della responsabilità della religione, ma stavolta con un positivo messaggio di lotta. I titoli inseriti nel concorso ufficiale sono otto.

Due dei titoli più attesi provengono da Cannes, The blue caftan di Maryam Touzani, una storia d’amore materica presentata nella sezione Un certain regard, ed il film tunisino Under the fig trees di Erige Sehiri, il suo primo lungometraggio di finzione inserito nella Quinzaine des Réalisateurs, che vede protagoniste quattro ragazze impegnate nel lavoro estivo in campagna tra amori, ragazzi e speranze. Altro debutto è quello di Youssef Chebbi con Ashkal, su una misteriosa scoperta di cadaveri all’interno di un cantiere di Tunisi. Burning Days di Emin Alper narra invece di Emre, un giovane funzionario trasferito in provincia, in una piccola cittadina colpita da una crisi idrica, oltre che da corruzione e scandali politici, così recita la sinossi, basato su uno schema di sceneggiatura dunque abbastanza classico, con uno straniero che arriva in comunità e porta scompiglio.

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