Meeting the Man: James Baldwin in Paris, di Terence Dixon

Un reportage breve, ma intenso, che da racconto della vita dello scrittore e attivista a Parigi si trasforma in una messa sotto scacco del senso di colpa occidentale. Su Mubi

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Io so una cosa su di voi: che voi non sapete niente di me. E io posso salvarvi.

 

 

James Baldwin

La presunzione di comprendere una condizione aliena a sé stessi è forse la ragione per cui, nel 1970, James Baldwin maltratta verbalmente Terence Dixon in Meeting the Man: James Baldwin in Paris. Lo scrittore, figura cardine della letteratura statunitense, si trova nella capitale francese dal 1948, quando, stufo del pregiudizio, del razzismo e di vivere sotto costante minaccia per il solo colore della propria pelle, decide a 24 anni e con soli 40$ in tasca di emigrare. Non si tratta però di una fuga. Questa è impensabile e impossibile: “Dove potrebbe andare un nero se volesse fuggire?”. Il rischio è inespugnabile e l’unica possibilità, l’unico germoglio di speranza è la lotta: “So che io e coloro che amo potremmo sparire al mattino. Stanno uccidendo i miei amici. Semplicissimo. E va avanti da quando sono nato. Ma ora c’è luce nei nostri volti. Vivere nell’ombra della morte dona una certa libertà”.

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I ventisette minuti del cortometraggio sono cannibalizzati dallo scrittore statunitense e dai suoi occhi strabuzzati e battaglieri dai quali ci si aspetterebbe di veder fuoriuscire scintille elettriche. Baldwin provoca continuamente il suo interlocutore, con una forza che fa intuire il suo passato di predicatore: sotto al monumento della Bastiglia, quando si mostra riluttante a rilasciare un’intervista; nello studio del pittore Beauford Delaney, quando sorride sarcastico alla macchina da presa; nell’intervista con Dixon, quando chiede delle prove a sostegno del fatto che tutti, almeno una volta nella vita, siano stati innamorati.

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James Baldwin in Paris

A un certo punto, però, chiede a Dixon se pensa davvero di sapere cosa voglia dire essere neri in USA. Il silenzio che cala è loquace: no, no lo può sapere. Eppure, se la consapevolezza della condizione dei neri è il primo passo per la loro liberazione, non sarà l’uomo bianco a sciogliere le catene. “Tu, l’inglese, il francese, il cristiano, l’occidentale, non riuscite a non sentire che dovreste fare qualcosa per me. Che dovreste salvarmi. E non capite che ho patito la vostra salvezza per così tanto tempo che non posso più permettermelo. Non voglio più nemmeno un secondo della vostra salvezza!”.

James Baldwin, con brutale onestà, brucia quel senso di colpa tutto occidentale, quello che sotto il nobile stendardo della responsabilità nasconde l’inconscia presunzione di essere migliori. Invece di unirci semplicemente al coro lo scrittore ci chiede di ascoltare in silenzio, di porci delle domande piuttosto che dispensare risposte. In base a quale superiorità morale abbiamo il diritto di giudicare o scegliere il modo in cui colui che si sente schiavo spezza le proprie catene? La velocità con la quale ci inginocchiamo in segno di supporto, non può anche tradire la fretta di dare l’impressione di star lavando una coscienza sporca? Quando ci si chiede con orrore se avremmo potuto essere noi di fronte all’omicidio di George Floyd, ci si riferisce alla vittima o al carnefice?

Disponibile su MUBI (gratis per 30 giorni accedendo da questo link)

Titolo originale: id.
Regia: Terence Dixon
Distribuzione: Mubi
Durata: 27′
Origine: UK, Francia, 1970

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
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