Meglio una bugia – appunti sul cinema di Massimo Troisi
Grande Troisi, davvero bravo se riusciva a smarcare la critica, a farle fare la brutta figura che si merita: gli artisti debbono accettare i critici ed i critici, per fortuna, soccombono definitivamente rispetto non al giudizio ma all'amore del pubblico. E i film di Massimo erano un atto d'amore verso gli spettatori
L’abile freddezza con la quale alcuni critici di quotidiani nazionali hanno analizzato e massacrato l’ultimo film di Troisi, la dice lunga sul rapporto che questo attore ha vissuto con il cinema: da un lato il pubblico, ammaliato, affascinato, innamorato dal giovane che vedeva agire sullo schermo e con il quale empatizzava facilmente, dall’altro il critico che analizzava, seguendo i propri – a volte colti – riferimenti, che riusciva a mettere in evidenza tutte le carenze tecniche, tutte le difficoltà artistiche, tutti i buchi di sceneggiatura dentro i quali sarebbe dovuto sprofondare Troisi.
Grande Troisi, davvero bravo se riusciva (e riesce) a smarcare la critica, a farle fare la brutta figura che si merita: gli artisti debbono accettare i critici ed i critici, per fortuna, soccombono definiti-vamente rispetto non al giudizio ma all’amore del pubblico.
Del resto, a guardare Il postino si rimane stupiti dall’abilità di coloro che sono riusciti ad analizzarlo con tanto rigore, con tanta ferrea logica demolitoria. Bisogna essere davvero impregnati di profonda deontologia se, poi, al cinema si riesce ad andare con il cervello, lasciando a casa il cuore e tutto il resto perché, come negli altri film di Troisi, anche quest’ultimo è un atto d’amore verso lo spettatore, è il tenativo di riflettere, anche per se stessi, su certe cose poco chiare – un’idea politica che non esiste più, il piacere del sentimento, dell’amore, dell’amicizia, la presenza incombente della malattia e della morte.
Erano considerazioni che Troisi esibiva, puntualmente, anche negli altri suoi film e soffriva a dire certe cose, soffriva nel tentativo di chiarirsi cosa fosse l’amore, cosa l’amicizia. I suoi erano testi in progress, rimandavano ad un altrove che non poteva essere che nella testa del proprio pubblico. Tant’è che ciò che diceva – le sue battute, i suoi modi di dire ed i titoli dei suoi film – ci sono rimasti, indelebilmente, dentro.
Per questo era capace di creare perfette storie ‘aperte’, senza un finale che dicesse qualcosa di definitivo e di definitorio: dialogava, così, con la gente che, forse, un po’ temeva, chiuso, introverso, simpatico ed intelligente, ricco d’interessi come dimostrava essere nel privato.
I suoi dubbi sono tutti là, nei film, nelle cose che scriveva. Non insegnava, ci spingeva a riflettere – e, questo, il pubblico lo capiva.
I suoi difetti stilistici, la sua imperfetta dizione, i suoi errori di grammatica cinematografica lo fanno più vivo di tanti suoi colleghi-intellettuali, ricchi di cinema visto, sicuri delle proprie moine (per questo sono più amati dalla critica con la quale dividono riferimenti culturali e piaceri cinetelevisivi).
Troisi ha attraversato un decennio di cinema nostrano, ha dato se stesso cogliendo, abilmente, la necessità di dominare i propri personaggi: sapeva scrivere ed amava la scrittura. Il suo genio è ritenuto a torto spontaneo e naturale. E’, invece, una genialità che riflette su se stessa, che non gioca con le necessità d’un botteghino che impone ‘almeno un film all’anno’.
Lui procedeva assecondando i propri ritmi, seguendo le indicazioni dettategli dalla sua abilità d’attore, capace di dare risonanze del tutto personali a ciò che interpretava.
Scola, da grande facitore e artigiano di cinema quale è, lo aveva capito bene, e lo assecondava, lo lasciava fare. I film che ha girato con lui (Splendor, Che ora è, Il viaggio di Capitan Fracassa) sono doppiamente interessanti e andrebbero valutati proprio per questa capacità che ha avuto il regista d’interpretare ‘Troisi in quanto persona’, di costruire una propria analisi rispetto a quello che resta un vero e proprio fenomeno del nostro cinema. I discorsi, allora, si sovrappongono, si sommano, creano interazioni particolarmente stimolanti. In qualche modo verrebbe da dire che Scola è stato uno dei migliori critici di Massimo: l’ha visto nella sua globalità e, giustamente, ha evitato di distinguere, di dividere ciò che non è divisibile – colpa di certo strutturalismo mal digerito se c’è ancora qualcuno che continua a voler sezionare, frammentare, tagliare correndo il rischio di veder morire un organismo che pulsa e che, godendo, ci fa godere solo da vivo, solo nella sua inesauribile unità.
Del resto far critica ‘negativa’ su Troisi è la cosa più facile, ovvia, banale di questo mondo: lui esibiva costantemente quelli che riteneva essere i suoi limiti – primo, fra gli altri, quello culturale. Lo dice costantemente, lo ripete in tutti i suoi film: è la sostanziale inadeguatezza ad un mondo di acculturati che, in qualche modo, vede distante, un luogo abitato da esseri che, se troppo contigui, finiscono con l’infastidire (per questo non sopporta il bambino genio suo vicino di casa in Ricomincio da tre o reputa inutile la lettura dei libri, essendo da solo a leggere mentre troppi sono quelli che scrivono – in Le vie del Signore sono finite).
Anche il mondo dell’amore lo mette in crisi: è il motivo per cui cerca di svicolare, di lasciar perdere. Continuamente attratto dal sentimento, non ama la falsa conseguenzialità che dall’amore porta, necesariamente, al matrimonio, ai figli. E’ l’istituzionalizzazione dei sentimenti che lo fa star male, che lo angoscia.
E, come se non bastasse, anche il pensiero religioso gli crea problemi, un mondo ricco di dettami, di certezze, di convinzioni troppo moleste per chi vive, continuamente, annegato nell’umanis-simo, ragionevole dubbio.
Si fa presto ad avere la meglio contro chi sostiene ed apprezza i paludamenti della bugia e della menzogna rispetto alla purezza presunta della verità: Troisi odia il dolore, non lo sopporta, accetta anche la delazione pur di non essere torturato (lo afferma in Ricomincio da tre). Ammettere questo, pubblicamente, vuol dire accettare ogni tipo di critica, essere oggetto di ludibrio da parte di chi si erge a giudice. Significa anche accettare i propri limiti, metterli in mostra, chiarire agli altri e a se stessi come si è. Se non si accetta questo patto, con Troisi, questo patto che lo rende forte ed umile al contempo, questo patto che presuppone un’incondizionata sincerità, vuol dire disconoscerne il genio, non comprenderlo. Vuol dire incasellarlo in luoghi che non gli sono propri, che lo limitano e lo etichettano secondo ingiusti pre-giudizi. Vuol dire metterlo accanto a Truffaut o a Welles o a Fellini o a Wenders con i quali condivide solo alcuni elementi, del tutto secondari (lo strumento utilizzato per esprimere se stessi e poco altro). E gli stessi accostamenti con i comici che popolano il nostro cinema di questi ultimi anni (da Verdone a Nuti, da Benigni a Nichetti a Benvenuti) rischiano di essere del tutto fuori luogo: raccontare se stessi – come fa Troisi – è una cosa, raccontare ‘eventualmente’ se stessi attraverso storie (belle, brutte, interessanti che siano) è altro.
Poi, a parte, quale ulteriore elemento determinante, c’è la malattia. Quella psicosomatica, quella da raffreddamento, quella affettiva, quella reale. Compare nei film, talvolta li domina, è sempre sottilmente presente sul suo volto, dubbioso, perplesso, imbaraz-zato, avvilito. Lui, in definitiva, ride poco, ride controvoglia, un po’ sforzandosi (come avviene in Pensavo fosse amore).
Col Postino, sembra ricomporre certi nodi, sembra indicare una direzione, una possibile via d’uscita, un’eventualità di risposta alle domande che ha accumulato nei suoi quattordici anni di cinema. Lì sottolinea il credo fermo nell’amicizia (metaforicamente con Pablo Neruda e, nella realtà, con tutti quelli che l’hanno accompagnato nei suoi lavori – sceneggiatori, attori, registi, produttori…), rinnova il necessario piacere nell’amore che può anche sostanziarsi nel matrimonio (quello negato in Pensavo fosse amore trova, nel Postino, il suo compimento), afferma la necessità d’una partecipazione politica alla vita ed il superamento della malattia e della morte attraverso il piacere della poesia, perfettamente espressa nel film.
Con mano leggera Radford, il regista inglese che lo aveva ammirato in Ricomincio da tre e che gli era diventato amico, lascia trasparire tutto questo, lascia parlare, ancora una volta, Troisi, gli lascia dire le sue storie così come solo lui sa raccontarle, gli agevola i passi di questo suo felicissimo viaggio e mostra come di poesia, a volte, sia anche possibile morire.
(3 febbraio 1995)