Memoria, di Apichatpong Weerasethakul
Il film del cineasta tailandese ci ricorda come non ci può essere completezza nella visione e nella comprensione del mondo senza qualcuno a fornirci le chiavi mancanti
Memoria. E quindi ricordo. Se lo zio Boonme era un film su un uomo che può ricordare le sue vite passate, Memoria invece è la storia di una donna che si scopre punto di congiunzione tra presente, passato e futuro. Antenna appunto, capace di captare i segnali provenienti da altre dimensioni temporali, manifestazione di un mondo sotterraneo, invisibile eppure interconnesso. Jessica è una botanica che si trova a Bogotà in visita alla sorella malata. Qui, viene svegliata nel cuore della notte da un boato sordo che si ripresenta in situazioni casuali anche durante il giorno. Una presenza invasiva e disorientante di cui Jessica cerca di trovare l’origine grazie all’aiuto di Hernàn, tecnico del suono presso uno studio di registrazione. Nella sua ricerca, incontrerà poi l’archeologa Agnes, a capo di uno scavo che ha riportato alla luce alcuni resti umani risalenti a 6000 anni prima e che mostrerà a Jessica. E poi infine un altro Hernàn (o forse sempre lo stesso?), un pescatore che vive nel cuore della foresta amazzonica lontano dalla civiltà. Un film sulla memoria, dicevamo. Ma la memoria può essere anche rimozione. Ad ogni frammento conservato nella mente corrisponde inevitabilmente un’assenza, l’eliminazione, la cancellazione e dunque l’oblio di qualcos’altro. I ricordi sono solo piccole parti di un più grande quadro esistenziale, fermi immagine estrapolati dal flusso continuo della vita. Quindi ricordare, fissare nella mente, è di per sé un atto di violenza verso qualcosa di vivo destinato alla transitorietà, a non rimanere, ad estinguersi. I ricordi sono allora immagini morte, senza vita, immobili come il corpo di Hernàn disteso in mezzo ad un prato. Ecco allora che Apichatpong indugia sugli spazi in dilatatissimi longtake ed estenuanti riprese a camera fissa.
Ma Memoria è anche un film sul subconscio che riemerge. È un film di spettri che si manifestano, che risalgono da un sé profondo e sconosciuto, tanto da apparirci come un’alterità. La comprensione allora deriva dal contatto con un altro sé, al quale siamo inspiegabilmente connessi secondo una visione filosofica che unisce panteismo e fantascienza, viaggi nel tempo e nello spazio che si rivelano circolari e ritornanti. Chi allora meglio di Tilda Swinton, attrice aliena per eccellenza, a interpretare la protagonista Jessica, elemento d’unione con un mondo passato, che ritorna attraverso il più semplice tocco della mano. Così limpido e spontaneo, e per questo profondamente umano. Non ci può essere vita senza la morte, così non ci può essere memoria senza un corpo che si faccia ospite di ricordi. Ma Apichatpong fa un passo in più, mostrandoci che non ci può essere completezza nella visione e nella comprensione del mondo senza qualcuno a fornirci le chiavi mancanti. Ognuno di noi dunque è portatore di un frammento di storia che nulla significa nel suo solitario isolamento. All’interno di una visione organica del reale, siamo parti, frammenti oscuri, capaci di illuminarsi e trovare senso solo nell’esperienza del contatto, nel ricongiungimento con l’altro, solo tra le mani di qualcuno disposto ad accogliere la nostra storia e a farne, appunto, memoria.
Titolo originale: id.
Regia: Apichatpong Weerasethakul
Interpreti: Tilda Swinton, Elkín Diaz, Jeanne Balibar, Juan Pablo Urrego, Daniel Giménez Cacho, Agnes Brekke, Jerónimo Barón, Constanza Guitérrez
Distribuzione: Academy Two. In collaborazione con MUBI
Durata: 136′
Origine: Colombia, Thailandia, Francia, Gran Bretagna, Messico, 2021