"Mi faccio vedere in giro con attori del calibro di Robert De Niro e Dustin Hoffman per essere più credibile come attore drammatico". Incontro con Bill Murray

Esce nelle sale "Lost in Translation", film che racconta l'incontro di due americani sperduti in un hotel di Tokio. Accanto alla delicata Scarlett Johansson, troneggia Bill Murray in una notevole prova istrionica che coniuga fisicità e tenerezza. A Roma si è presentato con aria casual e barba incolta rispondendo alle domande in un buffo italiano

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Dopo il successo ottenuto alla recente Mostra del Cinema di Venezia esce nelle sale italiane "Lost in Translation" atteso secondo lungometraggio della giovane Sofia Coppola che racconta l'incontro di due americani sperduti in un hotel di Tokio. Accanto alla delicata Scarlett Johansson, vincitrice alla Mostra come migliore attrice nella sezione Controcorrente, troneggia Bill Murray in una notevole prova istrionica che coniuga fisicità e tenerezza. Alla conferenza che si è tenuta a Roma l'attore, in Italia per le riprese del suo prossimo film, si è presentato con aria casual e barba incolta rispondendo in parte alle domande in un buffo italiano.    


 


"Lost in translation" è un film che parla principalmente delle difficoltà di comunicare e della ricerca della propria identità. Quanto questi stati d'animo vengono accresciuti dal fatto di trovarsi in una città straniera?


 


Quando lascio la mia casa, quando sono in una città nuova mi sento sempre estraneo all'ambiente che mi circonda, almeno inizialmente. Questa sensazione si è palesata in modo evidente soprattutto a Tokio che è una città molto particolare, un posto complicato e difficile come lo è, del resto, l'Asia in generale. Anche in Italia posso avere inizialmente dei problemi d'adattamento ma le persone e la società sono comunque per certi aspetti vicini a quella americana. In Giappone le persone sono così diverse da noi occidentali che ci possono essere continue sorprese e nuove forme di relazioni tra gli interlocutori. Per esempio i giapponesi parlano molto lentamente per ore, al contrario di me che parlo velocemente.


 


La pellicola parla di incomunicabilità più che tra due persone tra due culture. L'incapacità di relazionarsi con culture differenti può essere un problema di cui soffre il mondo occidentale con drammatiche conseguenze sul piano internazionale?


 


Questa è una domanda molto difficile perché affronta un argomento estremamente delicato e ampio. Credo che quando si realizza un film bisogna essere molto precisi e specifici in quello che si racconta, e affrontare questa problematica da una prospettiva così ampia può essere rischioso. Chi fa cinema deve essere sempre molto puntuale, come uno scienziato quando compie un esperimento. Bisogna partire da un particolare e poi si può vedere il tutto anche in una prospettiva più ampia.

Cosa l'ha colpita inizialmente del Giappone?


 


Il mio primo viaggio in Giappone è stato nelle campagne del Sud e sono stato sorpreso di trovare l'atteggiamento di queste persone nei confronti dei cittadini di Tokio uguale a quello che in America hanno coloro che non sono di New York verso gli abitanti di New York e come qui in Italia i romani parlano dei milanesi. Prima di partire avevo i classici pregiudizi che si hanno sui giapponesi, luoghi comuni quali essere dei grandi lavoratori e dei fotografi instancabili. Invece mi sono reso conto che sono persone molto disponibili, simpatiche e curiose con una cultura capace di essere all'avanguardia ed estremamente tecnologica ma allo stesso tempo ancora intatta e tradizionale.


 


 


Può farci un esempio dell'humour nipponico?


 


Non conosco barzellette giapponesi… Il primo periodo in cui sono arrivato in Giappone avevo con me un libretto con tipiche frasi fatte, di quelli che utilizzano gli studenti per rimorchiare le ragazze del posto, con frasi del tipo: "Usi il preservativo?". Confrontarmi con loro tramite queste frasi pronte è stato molto divertente. Ho notato anche che loro ridevano molto con me, non so se ridevano di me e se questa sia una cosa negativa o positiva.


 


 


La sua partecipazione nei film è sempre una garanzia di riuscita. Lei possiede qualità importanti come l'ironia, la leggerezza ed un'estrema malinconia.


 


Sono perfettamente d'accordo… Credo di avere abbastanza senso dell'humour e di metterlo in quello che faccio, anche se a dire il vero tutti pensano di averlo. L'attore che sono oggi è sicuramente il risultato delle mie esperienze passate e non solo lavorative. Anche la malinconia ha a che fare con l'esperienza e credo che tutto questo sia il risultato tra quello che si è realmente e quello che si vorrebbe essere.


 


 


In America il film esce censurato. Cosa ne pensa?


 


Sono sorpreso, lo vengo a sapere solo ora. E' ridicolo.


 


Il primo ruolo drammatico che ha interpretato risale agli anni '80. Allora il pubblico e la critica non furono forse pronti a vederla in tale ruolo e non sembrarono accettare la cosa. Ora con "Lost in Translation" sembra che finalmente tutti si stanno rendendo conto della sua bravura e credibilità anche in ruoli drammatici.


 


Un'espressione in inglese dice: "Il tempo guarisce tutti i mali". A quell'epoca ero conosciuto per le commedie che interpretavo e forse ho creato disorientamento nello spettatore. Credo che "Ricomincio da capo" abbia significato un punto di svolta in questo senso. Poi ho iniziato a lavorare con grandi professionisti e ho cominciato a farmi vedere in giro con attori del calibro di Robert De Niro e Dustin Hoffman per essere più credibile come attore drammatico. Comunque credo che il segreto per una buona recitazione sia imbattersi in personaggi ben scritti e ben delineati, cosa che a me fortunatamente è successa. Oppure, semplicemente, è probabile che quando ho iniziato a ricoprire certi ruoli non ero ancora sufficientemente preparato.

Nel finale del film l'ultimo dialogo tra i due protagonisti viene appositamente reso inascoltabile. Lei come giustifica questa scelta?


 


Sarebbe interessante sapere quale frase le persone avrebbero voluto ascoltare in quell'occasione. Credo che se i due protagonisti avessero cercato di spiegare ai loro amici, anche ai più intimi, quello che gli è capitato non avrebbero trovato le parole giuste per descrivere quella particolare esperienza.


 


Che rapporti ha con Hollywood, è facile trovare la sceneggiatura giusta?


 


Sono nato e cresciuto in una grande metropoli quale Chicago e per me Hollywood rappresenta solo una piccola cittadina di provincia. Non mi piace vivere lì perché tutti i suoi abitanti lavorano nel cinema e si parla sempre e solo di quello ed alla fine la cosa può risultare molto noiosa. Vivo a New York una città decisamente più eterogenea e interessante e Hollywood rappresenta il lavoro. Per quanto riguarda le sceneggiature, essendo io una persona tendenzialmente pigra, non ho mai arrancato dietro di loro. Credo che il segreto sia  di non farsi vedere troppo disperato. In questi ultimi anni sono stato felice del fatto che mi sono arrivate sempre ottime proposte.


 


"Lost in Translation" è stato nominato per gli "European Awards" e per gli "Independent Spirit Awards. Facendo i dovuti scongiuri a quando l'Oscar?


 


Gli "Independent Spirit Awards" sono la versione comunista degli Oscar per cui non spargiamo troppo la voce in giro per evitare futuri problemi di lavoro…


Spesso dopo aver ricevuto l'Oscar cominciano le difficoltà, su di loro forse c'è una specie di maledizione. Mi piace il mio lavoro e cerco sempre di farlo al meglio, ricevere dei premi rappresenterebbe soltanto avere dei riconoscimenti in più.


 


 

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