Michael Chapman, la tecnica e l’emozione

Chapman sapeva filmare tutto: metropoli, corpi, primi piani, paesaggi, inseguimenti, drammi intimi, commedie e thriller. Ma riconosceva anche una specie di inconscio nel cinema.

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Ogni singolo fotogramma di Taxi Driver sembra un quadro di Edward Hopper realizzato da Norman Bates. Le immagini cinematografiche di Michael Chapman traducono un universo poliedrico e apparentemente inconciliabile che trova sempre la giusta essenza visiva e spirituale. Eppure Chapman era umilissimo e credeva che l’estetica fosse prima di tutto una conseguenza della tecnica. “Il cinema è un mezzo meccanico e chi fa cinema deve concentrarsi sulla tecnica e lasciare che sia la tecnica a dare il piacere estetico” dice nella fondamentale intervista pubblicata sul volume I maestri della luce (Ed. Minimum Fax).

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Classe 1935, Michael Chapman se n’è andato a 84 anni dopo più di un decennio lontano dai grandi set hollywoodiani. Era di New York come Martin Scorsese e Robert De Niro e proprio a una sorta di simbiosi con l’ambiente, di “newyorkesità”, attribuiva la resa iperrealista di Taxi Driver. Prima di firmare in prima persona i film della New Hollywood – l’esordio arriva con L’ultima corvé di Hal Hasby, anno 1973 – tra la fine dei ’60 e l’inizio degli anni ’70 era stato l’operatore per un altro genio della fotografia del cinema americano, Gordon Willis. Imparò da lui i segreti del mestiere e la sua palestra fu il set di Una squillo per l’ispettore Klute e quello de Il padrino.

Non ha mai vinto un Oscar, come del resto il suo maestro Gordon Willis. Lo avrebbe meritato almeno con il bianco e nero di Toro scatenato (1980), dove gli riesce il miracolo di mettere insieme il neorealismo italiano con le copertine anni ’40 del magazine Life con in più le spruzzate espressioniste degli incontri di pugilato. Il passato da operatore aveva acuito il suo rapporto viscerale con la cinepresa. A prescindere dall’uso delle luci e dalla sovraesposizione, amava portare la camera in spalla, avvicinarsi agli attori, scegliere le angolazioni, salire sui dolly.

È entrato nella storia soprattutto con i tre film e mezzo diretti da Martin Scorsese – Taxi Driver, L’ultimo Valzer, Toro scatenato e il videoclip Michael Jackson’s Bad – ma negli anni ’80 è passato al ruolo di regista firmando due film: Il ribelle (1983) e Cro Magnon: odissea nella preistoria (1986). Il primo è un coming of age proletario sottovalutatissimo, con Tom Cruise in uno dei suoi primi ruoli da protagonista. Qui Chapman filma le fabbriche, la provincia americana e le scene di sesso con una dose di realismo inedita per i canoni del cinema americano.

Nel 1994 con Il fuggitivo di Andrew Davis confeziona un pezzo di bravura dietro l’altro e accompagna il regista verso un livello che non avrebbe mai più raggiunto. In questo caso fonde l’eleganza del cinema d’autore con i ritmi vorticosi dell’action movie, ben vent’anni prima di Roger Deakins in 007 Skyfall. Il regista con cui ha lavorato di più è stato Philip Kauffman (Alba di ghiaccio, Terrore dallo spazio profondo, The Wanderers I nuovi guerrieri, Sol Levante), ma scorrendo la sua filmografia spuntano anche i nomi di Paul Schrader, Joel Schumacher, Richard Donner, Ivan Reitman, fino ad arrivare allo straziante fantasy Un ponte per Terabithia del 2007, suo ultimo titolo come Director of Photography. Una filmografia diversificata negli autori e soprattutto nei generi, che tradisce ancora una volta l’amore per la professione ancor prima che per l’arte del cinema. La semplicità del mestiere prima di tutto. A differenza di altri direttori della fotografia più celebrati, Chapman sapeva filmare tutto: metropoli, marciapiedi, corpi, primi piani, paesaggi, inseguimenti, drammi intimi, commedie e thriller. Non credeva necessariamente nella “bella” immagine, per lui essere un grande direttore della fotografia significava soprattutto “realizzare una serie di immagini convincenti dal punto di vista emotivo e capaci di raccontare la storia“. Ma riconosceva anche una specie di inconscio del cinema, capace di agire a prescindere dalla razionalità del regista e del direttore della fotografia. Un inconscio che spuntava dietro la tecnica… prima dell’emozione. In altre parole: la formula del cinema.

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