Michel Piccoli, l’eleganza, la libertà e l’inquietudine

Una mole di lavoro incredibile, una infinita gamma di personaggi, un attore che ricorderemo per l’eleganza che sapeva portare sullo schermo. Ci mancherà davvero Michel Piccoli.

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Quando accadono questi eventi, la scomparsa di un attore, come in questo caso, o di un autore al quale si è particolarmente legati, si è soliti domandarsi: ma quando l’ho visto per la prima volta in un film oppure, qual è il suo film che ho visto per primo o quello che mi è piaciuto di più?
Per Michel Piccoli la risposta è davvero molto difficile. Era nato nel 1925 a Parigi e già a vent’anni, nel 1945, aveva interpretato il suo primo film che si intitolava Sortilèges diretto da Christian-Jacque, che molti anni dopo avrebbe diretto anche un Peppone e Don Camillo, Don Camillo e i giovani d’oggi (1970). Ma è proprio questo esordio così precoce, per un attore che avrebbe lavorato fino a quasi novant’anni, ad impedire di verificare i temi della questione. Quindi, abbandonando la domanda, proviamo ad entrare nel mondo di Michel Piccoli, ora che ci ha lasciato.
Attore naturalmente elegante, versato ad interpretare un mondo in decadimento, forse per lo spirito libero che sembrava facesse naturalmente parte di lui, forse per quella vena di trasgressiva sapienza che sapeva mostrare in trasparenza, dietro il completo con cravatta che indossava arricchendo la sua raffinata figura. Sarà per tutto questo che Michel Piccoli, con quella sua aria che lo portava a guardare le cose un po’ dall’alto in basso e mai afflitto dalla moderna frenesia, nel suo modo di fare, anzi composto (Dillinger è morto) e meticoloso (La bella scontrosa), aveva costruito la sua immagine d’attore e questo piaceva alle donne e anche agli uomini, che vedevano in lui la distinta figura che tutti vorremmo avere e un’aria distante perfino dalle passioni della vita.
Michel Piccoli ha rappresentato l’intellighenzia europea che si faceva racconto per il cinema, attore cruciale nelle scelte di grandi autori che hanno segnato il Novecento cinematografico con le loro riflessioni totali sui concetti fondanti delle società. Piccoli è stato non solo testimone di tutto questo, ma è stato soprattutto protagonista di quel mondo e di quelle elaborazioni, di quel clima e di quel cinema culturalmente vivace, ancora oggi tesoro inestimabile poiché punto di riferimento costante e non eludibile.

Ha girato complessivamente 178 film, salvo errori, e ha lavorato con i più grandi registi del secolo passato. Godard, De Oliveira, Hitchcock, Ferreri, Chabrol, Rivette, Cavalier, Melville, Varda, Carax, Malle, Bellocchio, Moretti e moltissimi altri, in un’infinità di ruoli, in una serie infinita di storie che gli hanno restituito la fisionomia con la quale noi spettatori lo abbiamo conosciuto, quella di attore versatile e disponibile.
Il suo primo incontro con un autore di spessore, ancora all’epoca non del tutto consacrato, fu con Luis Buñuel nel 1956 con La selva dei dannati ambientato in Sud America. Un film spietato, nel quale Piccoli veste i panni di un giovane missionario. Nel 1962 Lo spione con la regia di Jean-Pierre Melville e nel 1963 l’incontro con Jean-Luc Godard per girare Il disprezzo tratto da Moravia. Il film che forse fu crocevia di quel successo all’interno di un mondo intellettuale che appoggiava idealmente e con i propri film quella rivoluzione che si stava preparando. Ci facevano parte un buon numero, se non tutti gli autori che abbiamo elencato, oltre a quelli che, vicini per sentire ed espressione, hanno segnato le tappe importanti di quella parte della storia del cinema in Europa. Michel Piccoli ha fatto parte di quella generazione di cui è stato attivo partecipe, con quella naturale, apparentemente pacificata, espressione che lo accompagnava, pur nell’inquietudine velata e pronta a manifestarsi che ne caratterizzava i tratti più segreti. Ancora una volta basta pensare a Dillinger è morto di Marco Ferreri (1969), dove si scatenava una violenza apparentemente senza motivo che si dissolveva su quel vascello che lo portava ad una destinazione assolutamente ignota per scomparire al mondo. Furono anni davvero decisivi quelli a cavallo tra il 1968 e i primi anni ’70 durante i quali il cinema di tutto il mondo sembrò cambiare volto e relazionarsi con il pubblico in maniera più diretta, anni durante i quali venne rimesso in discussione ogni divismo e sotto la spinta di una contestazione sociale e diffusa in modo globale, gli autori si avvicinarono, senza nulla svendere delle proprie convinzioni, non solo ai bisogni della gente, ma ad un’idea di cinema che fosse organico e utile ad una rivoluzione permanente che sembrava dovesse sovvertire le sorti del mondo. La rivoluzione avvenne e ancora oggi ne troviamo le tracce, ma non sovvertì le sorti del mondo, o meglio le sovvertì silenziosamente. Il cinema e Michel Piccoli, che era intanto divenuto personaggio di rilievo all’interno di quel circolo di intellettuali del quale faceva parte, partecipò con la sua veste d’attore ricercato e raffinato a quella rivolta culturale. Nel 1967, ancora con Buñuel il decisivo Bella di giorno con Catherine Deneuve, che molti anni dopo avrebbe avuto un seguito con la regia di Manoel De Oliveira in Belle toujours, nel quale i due personaggi si incontrano nuovamente dopo molti anni.
Con l’arrivo del decisivo 1968, spicca il volo anche la sua carriera, già all’epoca così ricca. In quegli anni e almeno fino al 1973 ebbe modo di non sbagliare un film, partecipando alle opere che meglio hanno caratterizzato il mutamento di direzione che il cinema ebbe in quegli anni, in quel clima benefico di rivoluzione culturale che si radicò in quel decennio.
Per citare solo i più famosi: La chamade di Alain Cavalier (1968), spaccato di una società alto borghese in una storia d’amore narrata dal punto di vista femminile; La via lattea di Luis Buñuel (1968), viaggio nelle eresie cattoliche del demonio e della Santità lungo il Cammino di Santiago; il già citato Dillinger è morto di Marco Ferreri (1969), introspezione silenziosa nell’alienazione con la fuga da una insopportabile società dei consumi; Topaz di Alfred Hitchcock (1969), la guerra fredda in una storia di spionaggio tra Usa, Cuba e Francia; L’udienza di Marco Ferreri (1971), film cruciale e forse sottovalutato, in cui ricerca paterna e questioni religiose si intersecano nella graffiante metafora del potere creata da Ferreri; Dieci incredibili giorni di Claude Chabrol (1971), un morboso giallo dai ritmi lenti; La cagna ancora di Marco Ferreri (1971), saggio fantasociale tratto da Flaiano sul ruolo dei generi e sulla misoginia; Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel (1972), sarcastica e impietosa traversata sull’impotenza di una classe sociale senza più futuro; L’attentato di Yves Boisset (1972), film di denuncia con le sue verità scomode; L’amico di famiglia di Claude Chabrol (1973), ancora una riflessone sulle dinamiche di coppia nell’ambiente borghese in un film che si tinge del giallo chabroliano. Questa è solo una parte dei film interpretati e tra quelli trascurati aggiungeremmo Diabolik di Mario Bava del 1968 in cui interpreta il malefico Ginko.
Il cinema, il lavoro con i registi, diventavano quindi sempre più tema di ricerca, tema di relazioni vitali tra persone – Io lavoro con un regista cercando di capire perché mi ha scelto, per andare il più vicino possibile al suo mistero – perché anche questo faceva parte della sua personalità. In questo stava quel suo interpretare anche la politica, quella delle cose del quotidiano, che da socialista convinto lo faceva essere contro le destre, quella francese e quella italiana, quella destra che aveva mandato al potere Silvio Berlusconi. È in questa direzione che va letta la sua vita d’artista, quell’arte di una recitazione sempre intensa e mai eccessiva, permeata naturalmente di una genetica modernità, tale da lasciare impronte precise nella storia del cinema, da fare pensare a cosa sarebbe stato il cinema europeo, quello che prima abbiamo per sommi capi passato in rassegna, senza Michel Piccoli.
Negli anni successivi da Non toccare la donna bianca con l’amico Ferreri nel 1974 all’altro pezzo pregiato della filmografia di Buñuel Il fantasma della libertà e sempre nello stesso anno Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre di Claude Sautet, film sui fallimenti sentimentali. Nel 1976, ancora con Marco Ferrreri in L’ultima donna e Todo modo di Petri. Un succedersi di nomi e di titoli che da soli formano interi capitoli di qualsiasi storia del cinema.
Piccoli era divenuto ormai un personaggio di spicco del cinema europeo e il senso di questa profonda conoscenza dei grandi autori che aveva incrociato lungo il suo cammino d’attore è restituito nelle parole contenute nell’intervista rilasciata un po’ di anni fa a Noël Simsolo (Il registro della confidenza in S. Parigi, Marco Ferreri il cinema e i film, Marsilio, 2005): Buñuel e Ferreri sono molto diversi. Buñuel è un “artigiano”. Rivendicava di essere un artigiano. Se un produttore messicano gli comunicava di non avere più denaro per continuare le riprese, Buñuel girava subito la fine del film. E basta… Marco Ferreri, invece, ha il controllo di tutto l’armamentario del cinema. Ne conosce tutti i meccanismi. La produzione, le luci, il montaggio, tutto… Lavora nel sistema e con il sistema, come Jean-Luc Godard, che si rivolge ad attori molto conosciuti e riconosciuti come tali all’interno del sistema cinematografico tradizionale.
Nutriva una particolare attenzione per il cinema italiano e non è un caso che uno dei suoi ultimi film fu proprio con un autore italiano come Nanni Moretti che in Habemus papam gli propose un ruolo anticipatore, perfino della storia, di quello che sarebbe accaduto qualche anno dopo. Ma il suo legame particolare era quello stretto con Marco Ferreri con il quale ha girato moltissimi film anche in nome di un’amicizia che si era consolidata. Si erano conosciuti all’epoca di Dillinger è morto. Ferreri offrì a Piccoli il ruolo proponendogli di leggere le dodici pagine che aveva scritto. Si rividero il giorno dopo allo stesso caffè e Piccoli accettò il ruolo, Ferreri lo invitò a seguirlo perché lo aspettavano per le riprese. A proposito del regista milanese Piccoli sempre nell’intervista rilasciata a Noël Simsolo, confessa: Lavorare con lui significa lavorare nel registro della confidenza. …non dirige gli attori. Non dà mai indicazioni. Tutto si svolge sul tono della confidenza. … È un moralista e un narratore. Un manipolatore che seduce e vampirizza ma che conserva una profonda e immensa tenerezza. È attento anche a rendere l’attore consapevole di possedere un corpo. Una stretta confidenzialità e conoscenza reciproca caratterizzava la loro amicizia. È sempre da questa preziosa intervista, nella quale l’attore si lascia andare alle confessioni, che traspare la sua vena trasgressiva e Marco Ferreri ne era un insostituibile interprete. È nel film più trasgressivo, La grande abbuffata (1973) dove forse ha maggiormente sentito quel senso di forte comunità all’interno del set. Amava una foto che era stata fatta in occasione del film e, a questo proposito, dice all’intervistatore: L’unica copertina di rivista di cui vado fiero è quella di «Paris- Match» in occasione di La grande abbuffata, in cui sono fotografato con una testa di vitello in braccio!
Nel 1980 Salto nel vuoto, di Marco Bellocchio gli valse a Cannes il premio per la migliore interpretazione maschile, l’unico premio di rilievo della sua luminosa carriera. Continuò la collaborazione con i registi italiani e nel 1982 con Ettore Scola girò Il mondo nuovo e con Liliana Cavani Oltre la porta, e ancora in quel ricco 1982 Passion con Godard. Ma il 1982 di Piccoli non finì qui, riuscì infatti a realizzare anche Gli occhi la bocca, di nuovo con Bellocchio. Tra la fine degli anni ‘80 e l’ultimo suo film nel 2012 ha collaborato sia con registi già attivi negli anni dei suoi esordi, sia con autori più giovani che si erano fatti apprezzare per le loro qualità. Nel 1986 Rosso sangue di Leos Carax, all’epoca già considerato astro nascente della cinematografia francese, e poi nel 1988 l’ultimo film con Marco Ferreri Come sono buoni i bianchi. Ma ancora da annoverare: con Jacques Rivette La bella scontrosa nel 1991, con Agnès Varda Cento e una notte nel 1995, con Louis Malle Milou a maggio nel 1990. Negli anni successivi ancora tre film con Manoel De Oliveira Party (1996), Specchio magico (2005), Belle toujours e Rencontre unique (2007). Due altri grandissimi autori lo hanno voluto nei loro cast: Otar Ioseliani nel 2006 per Giardini d’autunno dove interpreta un personaggio femminile, e Theo Anghelopoulos nel 2008 per La polvere del tempo. E poi il già citato film con Nanni Moretti nel 2011 e ancora con Leos Carax per Holy Motors, ultimo film accreditato per il grande attore francese.
Una mole di lavoro incredibile, una infinita gamma di personaggi, un attore che ricorderemo per l’eleganza che sapeva portare sullo schermo e che ha saputo dare un’impronta propria ad ogni film, al di là di ogni impegno autoriale. Ci mancherà davvero Michel Piccoli.

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