Mighty Flash, di Ainhoa Rodriguez
Dalla sezione “Nuove Impronte” del Trieste ShorTS, l’esordio di Ainhoa Rodriguez è una surreale rappresentazione di un villaggio di provincia, tra apocalittica inquietudine e palingenetica speranza
“Un grande bagliore di luce apparirà sopra al villaggio e cambierà tutto. È meraviglioso. Avremo tutti mal di testa, perderemo la nostra memoria e scompariremo”. Sono queste le parole che aprono Mighty Flash, esordio alla regia della regista spagnola Ainhoa Rodriguez presentato allo scorso Festival Internazionale di Rotterdam. La donna che le pronuncia e le registra su una cassetta ha l’aspetto e la cadenza di una sciamana, quasi che stesse evocando il film stesso. Che, infatti, si muove proprio sul doppio binario di queste frasi, che conservano allo stesso tempo l’inquietudine dell’apocalisse e la speranza della palingenesi.
Mighty Flash è ambientato nel sud-ovest della Spagna. Tra colline riarse dal sole pezzate da una stoica vegetazione, c’è un piccolo villaggio che si sta velocemente spopolando. Con i giovani che non perdono mai l’occasione di scappare verso migliori prospettive senza più tornare, nel paesino vivono praticamente solo uomini e donne anziane o quantomeno mature. Rodriguez non sceglie la storia di uno o più di questi abitanti come fil rouge, come può aver fatto Denis Côté nel suo Ghost Town Anthology. Fin dal principio e per tutta la sua durata di poco più di un’ora e mezza Mighty Flash è un film che gioca coi silenzi e con gli spazi per creare un’idea di vuoto che sfibra tanto lo spettatore quanto i suoi personaggi, vogliosi di riempirlo e di cui l’evocazione iniziale funge da cornice.
La frammentazione delle linee narrative, la scelta di un ritmo compassato e di azioni estenuanti e il frequente ricorso a situazioni grottesche o surreali sono tutti mezzi per raggiungere lo stesso obiettivo: raggiungere un paradossale stato d’animo di anestetizzata frenesia, come se l’anestesia non avesse avuto il previsto effetto e ci avesse lasciati allo stesso inerti e irrequieti, con un’enorme voglia di muoversi ma senza la possibilità di farlo. Una condizione di nervosa apatia accentuata dall’utilizzo delle musiche elettroniche di Alejandro Lévar e Paloma Peñarrubia, quasi il rumore di fondo col quale il mondo alternativo, urbano e industriale, che preme su quello in cancrena del paesino di provincia.
L’accurata direzione di attori non professionisti, inoltre, fa acquisire a Mighty Flash una parvenza di verità anche quando la rappresentazione tocca le corde dell’assurdo, riuscendo nell’impresa di innescare il meccanismo dell’empatia anche al di fuori di una normativa narrazione. Una donna rientra in casa dopo una notte passata a far baldoria e si stende vicino al marito, che le chiede dove fosse stata. Lei risponde elusiva e brusca, per poi imporgli di salire su una scala e “assaggiare il soffitto” (che sa di arancia). Al di là del simbolismo che può apparire ermetico e irraggiungibile, la costruzione della scena trasmette perfettamente la sensazione di frustrazione della donna, che combatte la noia partecipando alla “movida” del paese, ma anche quella dell’uomo, solo e sconfitto. Si può imputare a Mighty Flash una mancanza di ritmo e di compiacersi troppo, in certi momenti, della sua splendida fotografia, di essere in generale un film non facile. Eppure, risulta difficile pensare a un modo migliore per rappresentare delle esistenze senza speranza, che guardano sé stesse e i luoghi in cui vivono morire.