Mike Myers, il cinema del corpo

Non ci sono limiti per il cinema di Roach/Myers, proprio perché non esiste limite che non possa essere scavalcato in corsa, e allora ecco lo spionaggio che diventa storia d'amore che diventa fantascienza che ri-diventa demenziale. Il cinema si fa e si rifà, Roach e Myers però lo strafanno

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Si può dare cinema del corpo? Molti ci provano, la lista è lunga, ma ci basti dire Ferrara, Cronenberg, De Palma, e pochi altri. Bene, a questo punto non ci resta che citare un nuovo cinema del corpo, uno sguardo assolutamente pazzo, in odore di puro delirio, in grado di raccontarci sin troppo bene la metastasi galoppante della nostra disastrata modernità. Ecco allora il cinema dei fratelli Farrely, "colpevoli" di un mucchio di film tra i quali un certo Amore a prima svista (2002) che facciamo rientrare volentieri tra le opere più dense e folgoranti dell'anno scorso, poi non possiamo omettere qualche cosa dell'ultimo Waters (sempre di corpi fatti/rifatti si parla), eppure manca ancora qualcosa. Arriviamo allora al punto, contenti di sdoganare una volta per tutte il cinema incredibile di Roach e Myers, rispettivamente regista e interprete di quello che è ormai a tutti gli effetti il ciclo delle avventure di Austin Powers. Di cosa parliamo? Ma di cinema, si intende, ma non basta. Di anarchia umorale allora, di impasti impossibili di tutto quello che un decoroso artigiano dello sguardo deve dimenticare, di ruzzoloni feroci sul margine di quel cinema colto e raffinato che popola tante delle nostre sale. Diciamo pure che un film dei Farelly (un nome a caso) unito ad una sequenza qualsiasi prodotta dal duo Roach/Myers vale più di mille cazzate pseudointellettualistiche di un Soderbergh e compagnia bella. Non ci credete? Peccato, vi perdete una delle operazioni commerciali (ma poi chissà fino a quanto) più pregnanti e arrischiate degli ultimi anni. A questo punto, ancora memori delle irresistibili e sguaiate acrobazie corporali del Myers dell'ultimo Austin Powers, non ci resta che dare un'occhiata ai trascorsi di questo piccolo e selvaggio agente segreto, in procinto di diventare la vera anima oscura di questo scorcio iniziale del nuovo millennio.

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Myers nasce il 25 maggio del 1963 a Scarbourogh, nel Canada. I genitori erano inglesi, immigrati da Liverpool in Ontario nel 1956 e furono probabilmente loro ad innescare nel piccolo Michael quel germe della comicità che non sarebbe tardato ad uscire fuori. Il padre era un venditore di enciclopedie, e pare che amasse non poco il cinema dei Monthy Python e quello dell'indimenticabile Peter Sellers. Le stesse opere insomma con le quali è cresciuto Michael, ultimo di tre fratelli, e sin da piccolo arruolato nelle fila della produzione televisiva di spot pubblicitari. La madre nel frattempo, a sua volta ex aspirante attrice, pare affascinata dai progetti del figlio, lo accompagna ad audizioni e provini, credendo sin da subito alle capacità del figlio. A scuola Mike era un piccolo fenomeno: voglia di studiare non è che ne avesse tanta, eppure, a quanto ci risulta, era in grado di riversare su quello che studiava una passione tale, da sbalordire gli stessi professori. Non gli piacevano troppo i compartimenti stagni, e allora via a mescolare tutto in un calderone impazzito in cui le avventure di 007 prendevano posto accanto ai personaggi della mitologia di Joseph Campbell. Finiti gli studi alla High school, Mike non fa in tempo a prendere il diploma, che si trova impegnato in un'audizione per la rete televisiva Second City in cui viene subito messo sotto contratto. Nel frattempo, intorno al 1987, Mike fa l'incontro sentimentale della vita: diventa amico di Robin Ruzan, un'aspirante attrice, con cui si sposerà poi qualche anno più tardi. Dopo essersi fatto notare in lungo e in largo da diversi produttori televisivi che già ne apprezzano il particolare fervore unito ad una carica comica irresistibile, Micheal Lorne, produttore del Saturday Night Live, lo vuole assolutamente nel suo programma. Veniamo allora al punto: in cosa consiste il lavoro televisivo di Myers? In nulla di troppo complicato, a dir la verità. Il comico non fece altro che prendere spunto dalla vita di tutti i giorni, immortalando nelle sue spassose caricature gente qualunque, dalla suocera, al vicino di casa, rendendoli più veri del vero, creature parodiche resuscitate di volta in volta con uno spirito sì iconoclasta, ma al tempo stesso volto a ritrarre di ognuno dei lati molto umani, che la gente non fece fatica ad apprezzare e a riconoscere immediatamente. In mezzo ad un vera e propria galleria di ritratti, come spesso accade, ce n'è sempre uno che si staglia sugli altri, quello che nel caso di Myers gli fece conoscere una popolarità quasi immediata. Si tratta di Wayne Campbell, uno strambo conduttore di una rete televisiva indipendente, in coppia con un certo Garth (Dana Carvey). Il successo fu dunque tale che l'esordio cinematografico venne da lì a pochissimo: ecco allora il primo film di Myers, Fusi di testa (1992) diretto da Penelope Spheeris, in cui Myers con l'amico Dana non fa altro che riproporre con grande successo ciò che già faceva in televisione. Il seguito (Fusi di testa 2) è più folle del precedente, ancor meno ordinato nel non rispetto della sintassi filmica, ma ci regala delle perle di assoluta grandezza demenziale con l'arrivo finale ad esempio degli Aerosmith (che fanno da contraltare all'apparizione nel film precedente di Alice Cooper) ancora più stravolti del loro solito. Myers non appare ancora molto in sintonia con i registi di queste sue prime due opere, eppure sembra trovarsi molto a suo agio sul set cinematografico, salvo poi scavalcarne di continuo il perimetro per avventurarsi in quella zona di nessuno che gli piace tanto calpestare. Alla sua terza prova sul grande schermo, Myers si trova ad affrontare un inconveniente che fino a quel momento non aveva mai sperimentato: il film è un flop, il pubblico pare averlo abbandonato.

Si tratta di Mia moglie è una pazza assassina? (1993) di Thomas Schlamme, ed è un'opera in cui Myers interpreta addirittura due ruoli, andando dunque a prefigurare le performance successive di Austin Powers. Dopo la delusione di un insuccesso non certo atteso, Myers si prende una pausa. Non è il tipo da scoraggiarsi, ed ecco allora il suo ritorno in grande. Il regista è Jay Roach, l'opera si chiama Austin Powers – Il controspione (1997) ed è una rilettura indiavolata della spy-story con Myers che interpreta il ruolo di un agente segreto degli anni '60 che, scongelato, a fine anni '90, si trova ad avere a che fare con un mondo più vecchio di trent'anni. Non si tratta più di vedere in che misura Myers abbia ereditato il tono e lo stile che aveva decretato il successo televisivo, ma di osservare la tonitruante marcia demistificatoria e provocante con cui insieme a Roach procede al rinnovarsi del cinema di un tempo, in quello di oggi, provocando delle boutade visive che sono lazzi, capovolte, unite sotto il segno di un'irrisione costante di ogni marchio di genere. Austin Powers è deriva corporea di ogni assetto sociale che si rispetti, è giravolta sbilanciata sul non presente del cinema, ma proprio sul suo assoluto senso di non appartenenza a questa o a quella epoca. I colori mimano quelli della Swinging London infuocata dei Sixties, lo sviluppo narrativo è bloccato in partenza all'insegna del continuo tornare sui suoi passi, arrestando il moto lineare di ogni progressione che si rispetti, in deviazione continuata di ogni logica del senso, di ogni tipo di automaticità del riconoscimento. Non ci sono limiti per il cinema di Roach/Myers, proprio perché non esiste limite che non possa essere scavalcato in corsa, e allora ecco lo spionaggio che diventa storia d'amore che diventa fantascienza che ri-diventa demenziale. Si respira una boccata di autarchia intellettuale in cui tutto è superfluo e al tempo stesso necessario, e in cui il simulacro del corpo cinema si risplasma in un moto vorticoso in cui l'immagine arriva a contenere due, tre quattro matrici differenti, vero e proprio trionfo espositivo di un'estetica postmoderna che mangia e dà fuori contemporaneamente (proprio nell'accezione del "darsi" al pasto comune della domanda/offerta della legge capitalistica) in un sussulto orgiastico e liberatorio di voglie espressive non più represse. Dopo la straordinaria performance nel ruolo di Steve Rubell in Studio 54 (1998), di Mark Christopher,  Myers è protagonsita dell'ancora più intenso, se possibile,  secondo episodio della serie, Austin Powers, la spia che ci provava (1999) sempre diretto da Roach, in cui si trova a che fare con la vendetta del suo acerrimo nemico Il Dott. Male. Per concludere, almeno fino a questo momento, ci siamo trovati sotto mani in questi giorni l'ultimo Austin, The Goldmember, e abbiamo assaporato il definitivo involarsi dello sguardo Roach/Myers sino alle soglie del capolavoro di teoria, capace però di rinunciare a quest'ultima per riconsegnarci in mano le chiavi di un distillato di consapevolezza filmica che oggi ha pochi eguali. In quest'ultimo delirio, Roach non fa molto altro rispetto alle due opere precedenti, ma si limita a rimasticare in fretta le stesse porzioni di spazio nello stesso intervallo di tempo, avvicinandosi al geniale surplus diegetico degli ultimi capitoli della Pantera rosa in cui Edwards si limitava a rifare il suo cinema, collezionando frammenti sparsi di uno sguardo in frantumi. Il cinema si fa e si rifà, Roach e Myers però lo strafanno, drogando la struttura chiusa/aperta del set con innesti svolazzanti che riepilogano gran parte del cinema contemporaneo inserendo i sublimi corpi lavorati dell'opera in una centrifuga temporale assolutamente spiazzante, vitale, incontrollata. Segno di una scrittura che graffia la vischiosità permeabile della celluloide, imprimendole tracce del corpo filmico dell'immaginario, schizzato sulle retine appannate di uno sguardo senza tempo.

 

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