MILANO 21 – "Yoolé", di Moussa Sene Absa e "Meandros", di Hector Ulloque Franco e Manuel Ruiz Montealegre (Concorso Documentari)

Yoolé
Yoolè, dell’eclettico Moussa Sene Absa, e Meandros di Hector Ulloque Franco e Manuel Ruiz Montealegre, entrambi in concorso nella selezione dei documentari, sono il prodotto di un cinema eminentemente politico. Due opere che vanno nella stessa direzione, quella di contraddire le versioni ufficiali, per riaffermare un’altra possibile verità. Ad una narrazione più “calda” dell’uno corrisponde una maggiore efficacia dell’immagine dell’altro. Ma questo non esclude che entrambi, per ragioni differenti, non abbiano centrato a pieno il proprio obiettivo

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YooléYoolè, dell’eclettico Moussa Sene Absa, e Meandros di Hector Ulloque Franco e Manuel Ruiz Montealegre, entrambi in concorso nella selezione dei documentari, sono il prodotto di un cinema eminentemente politico.

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Yoolé, che significa sacrificio, prende spunto da un drammatico avvenimento, il rinvenimento, al largo delle isole Barbados, di una imbarcazione con i corpi di undici senegalesi che tentavano di fuggire dal Snegal, per esprimere  il dissenso nei confronti di un regime che ha determinato la storia recente di quel Paese. È il governo di Abdoulaye Wade ad essere messo sotto accusa, è la sua politica fatta di grandi promesse alle quali non sono seguiti i fatti. Sene Absa che oggi vive alla Barbados, è tornato in patria per ascoltare i racconti e le opinioni di giovani senegalesi che davanti alla cinepresa manifestano il proprio disagio e il senso di tradimento  per le promesse non mantenute.

I due colombiani Ulloque Franco e Ruiz Montalegre, autori di Meandros invece, danno voce alla popolazione della regione di Guaviare della foresta amazzonica colombiana. Qui, le forti tensioni dovute al conflitto tra l’esercito e le FAARC e quelle legate al traffico della droga, hanno reso difficile la vita per gli abitanti di quei villaggi. Il loro quotidiano disagio che si fa cronaca nello parole, contrasta con la versione ufficiale che vuole nascondere l’esplicito malcontento.

Due opere che vanno nella stessa direzione e il cui scopo, rispetto ad aree geograficamente lontane, ma molto simili rispetto alle questioni sociali dalle quali sono afflitte, è quello di contraddire le versioni ufficiali, per riaffermare un’altra possibile verità.

In questo senso i due film si pongono all’interno di quella ricca documentaristica politica con una esplicita vocazione nella direzione di operare con lo scopo di mutare la prospettiva del racconto della storia recente.

L’intento è più esplicito in Yoolé che nasce apertamente con lo scopo di contrastare il regime diMeandros Wade, padre padrone del Senegal, meno evidente in Meandros che raccoglie il malcontento degli abitanti della regione, con un’apparente minore partecipazione, con una ragionata casualità che sembra favorire una maggiore oggettività di intenti. È questa l’evidente differenza tra i due documentari. Yoolè, risente di una maggiore tensione verso la dimostrazione una tesi che il regista evidentemente persegue. Per questa ragione il film si avvale di una narrazione più “calda” in cui la memoria dello spettatore è sollecitata dall’inserimento di brani di repertorio con lo scopo di evidenziare le contraddizioni della politica di Wade e la sua ingannevole magniloquenza.

Il film dei due autori colombiani, invece, mitiga, la stessa tensione politica nel tentativo di pratica una più efficace oggettività nella ricerca di una possibile verità dei fatti. La narrazione qui si fa più distaccata, più “fredda”, ma non per questo meno efficace. Il celare, attraverso, il velo delle parole delle interviste, il vero intento dei due registi e costruire la propensione al dissenso attraverso le progressive affermazioni dei racconti, conferisce al film quell’alone di maggiore verità che emerge anche da una immediatezza delle immagini che si soffermano sulla quotidianità delle famiglie.

In questa prospettiva il film di Ulloque Franco Ruiz Montealegre fonda la propria forza su una costruzione affidata più alle immagini, quelle che “parlano da sole”, i volti, i dubbi e le amarezze che emergono dai racconti, la vita, la povertà e la difficile quotidianità. Il film di Sene Absa affida la propria comunicazione soprattutto alle parole, alla quanto mai immediata forza comunicativa delle parole.

Una maggiore coesione del racconto, frutto di una più drastica e incisiva riflessione sull’efficacia espressiva di una diluizione eccessiva dei temi, avrebbe giovato al film colombiano, che troppo spesso e volentieri disperde la propria energie in sequenza d’ambiente che spezzano i ritmi narrativi.

Una minore traccia giornalistica, da reportage partigiano, se da un lato avrebbe avuto l’effetto di raffreddare gli animi dei propri connazionali (anche di quelli presenti in sala), dall’altro avrebbe fatto di Yoolé un efficace documento, più disponibile verso i fruitori non senegalesi, ma non per questo meno adeguato rispetto agli originari propositi.

 

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