Il titolo, anche nella traduzione italiana, Giorno per giorno, rende bene il senso di questo film così meditato dell’esordiente egiziana Hala Lotfy. In effetti, il titolo è la traduzione letterale del Libro dei morti degli antichi egizi.

La gioventù della giovane Soad è sacrificata dalle condizioni di salute del padre immobilizzato a letto accudito anche dalla moglie che lavora in ospedale come infermiera. La vita di Soad sembra scorrere quotidianamente uguale e solo alla sera si concede qualche ora fuori da casa. Ma le condizioni del padre peggiorano proprio durante una di queste sue passeggiate.

Un senso di disfacimento aleggia tra le mura dell’abitazione in cui sembrano consumarsi, le vite dei tre protagonisti della storia. Il sole malato, grazie ad una fotografia in cui insiste una particolare dominante che rende quasi irrespirabile l’aria dell’appartamento, sembra non riscaldare le tre esistenze legate dal comune destino. La Lotfy si muove tra le tre stanze dell’appartamento, con eleganza e circospezione, affidando ai tagli di luce il generale senso di dramma che domina la vita di Soad, di sua madre e dell’immobile padre. Nella routinaria quotidianità Soad sembra avere perduto il contatto con la realtà, oppure sembra che i fatti della sua vita, senza le necessarie cure, non possano che andare a male. Rompe un possibile legame d’amore e non riesce ad avere rapporti normali con le persone che incontra. Il peso che si porta dietro condiziona la sua vita.

In questa prospettiva si apre l’essenza di questo primo lungometraggio dell’autrice egiziana. Coming forth by a day, presentato alla 63esima edizione del Festival di Berlino, è un film sul sacrificio, sulla dedizione, sul prezzo che va pagato quando si decide di offrire la propria vita per il bene di un’altra persona. Un film meditativo che, opportunamente, lascia fuori qualsiasi riflessione religiosa, qualsiasi condizionamento legato alla futura ricompensa. Soad sembra dovere raccogliere i pezzi della propria vita, sembra doversi continuamente adattare ad una condizione che non sia quella di figlia devota e attenta alle esigenze del padre malato, sembra avere abdicato ai propri desideri, alla propria vanità, dentro uno smarrimento benissimo reso, nella parte finale del film, quando viene abbandonata dal tassista alla periferia della città. E tutto ciò accade giorno per giorno, indebolendo le sue fragili aspettative e così Soad continuerà a consumare la propria vita tra la cura delle piaghe del padre, la somministrazione delle medicine e il letto da rifare. Il racconto della Lotfy è tutto ristretto dentro l’animo della sua protagonista, il suo mondo, l’appartamento in cui vive sembra riflettere il soffocante odore di malattia e polveroso abbandono della propria vita. Il film diventa così una panoramica su un’anima smarrita e votata al silenzioso abbandono della vita, senza giudizi, senza pietismi, ma anche senza speranze.