Milano Design Film Festival 2018. Pulizie d’autunno

In the same boat, Albatross, Non abbiamo sete di scenografie, Jackie Chan’s Green Heroes, Pomerol, Herzog & de Meuron: le nostre visioni dalla sesta edizione della manifestazione milanese

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A Milano, presso il cinema Anteo, sempre più luogo deputato a visioni alternative, si è svolto, in una cornice di folto e caloroso pubblico, il 6° Milano Design Film Festival. Calore è parola quanto mai consona in questo caso, data l’attenzione, ci pare, al tema “casa”.

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Tra i film visti forse l’unico a prima vista non avvicinabile direttamente al tema “casa” è In the same boat di Rudy Gnutti, focalizzandosi invece sul tema lavoro. Tuttavia già dal titolo il film pone l’accento sul senso di comunità proprio dell’essere umano sullo stesso pianeta, la stessa barca appunto. L’opera di Gnutti è molto acuta nelle interviste, mentre cade leggermente su toni didascalici per le riprese di contorno, seguendo un cargo che si fa strada tra i ghiacci o un radiocronista che fa da narratore. Sicuramente è illuminante il giro del mondo che ci fa fare mostrando validissimi contributi da personalità come Erik Brynjolffson a Boston, Daniel Raventós a Barcellona, Bauman a Leeds, Mauro Gallegati ad Ancona o Pepe Mújica a Montevideo. Sentiamo tale viaggio come gesto di sintesi che ci pone tutti sullo stesso piano per interrogarci su cosa fare. Il problema della redistribuzione della ricchezza diventa nodo da sciogliere in questo momento della Storia, come questo film, dichiara.

Albatross di Chris Jordan invece colpisce subito per quanto sovraccarico, usando tutto ciò che può per suscitare in noi quel dolore che la morte di questi splendidi uccelli può portare. Dolore tangibile invece anche solo guardando per pochi istanti. La casa di questi animali è lo sperduto atollo di Midway nel Pacifico settentrionale (ultimo lembo di terra hawaiana). Qui più di un milione di individui svernano, si riproducono, crescono i propri pulcini e partono per la straordinaria avventura (veramente oceanica) della ricerca di cibo. Ma quando tornano purtroppo hanno lo stomaco pieno di ciò che l’indifferente oceano ha dato, cioè plastica, tradendo così la cieca fiducia che questi animali hanno sempre riposto. Da qui il tremendo strazio della loro morte e addirittura della morte dei loro pulcini appena nati, inconsapevolmente cibati a plastica da parte degli adulti. Girate in otto lunghi anni di lavoro e di vita insieme a questi pennuti, ripresi addirittura ad altezza becco, le bellissime (forse “troppo belle”) immagini, sono monito sia di viva preoccupazione che autentico strazio per come stiamo riducendo il mondo.

La casa ritorna anche nell’interessante Non abbiamo sete di scenografie di Ronchi/Corradi, documentario formalmente semplice ma ricco di sostanza. La chiesa di Alvaar Aalto, sita in Riola sull’appenino bolognese, venne costruita attraverso lunghe peripezie che ritardarono i lavori per 10 lunghi anni. Lo stesso popolo riolese si autotassò per contribuire, al fine di chiudere il cantiere e avere la propria casa di Dio, simbolo di comunità. Aalto poi riuscì a creare un edificio che manifesta chiaramente l’amore per il contesto in cui viene a nascere (le montagne, la luce). Il documentario segue questa intricata vicenda italiana (già di per sé interessante) aprendo, con prezioso materiale d’archivio, delle finestre nella nostra testa, che ci ricordano tempi non troppo lontani in cui Paolo VI ordinava al Cardinal Lercaro di lasciare senza motivo Bologna. Solo la pazienza e il lavoro di alcuni importanti attori della vicenda (tra cui il costruttore Tamburini) riuscirono a mettere la parola fine. Il film testimonia bene la potenza di una linea di design chiara da subito, linea che solo unità di intenti e dispendio di forze poterono concretizzare.

La visione del documentario Jackie Chan’s Green Heroes di National Geographic (con tutti i limiti dell’impostazione-National) ci porta anch’essa a riflettere sulla fragilità di casa nostra, cioè del pianeta Terra, sommerso di quella spazzatura che il “colpevole” Jackie vuole riciclare. Dopo anni di film dannosi per l’ambiente la star cinese finanzia l’idea di Arthur Huang di creare un sistema mobile per il riciclo della spazzatura creata nei luoghi raggiunti dal veicolo. Trashespresso è un camion di gigantesche proporzioni che fa persino fatica a fare manovra. Ma al di là del valore artistico dell’opera, totalmente monotematica, colpisce il monito ai nostri occhi, assolutamente esterrefatti di come si possa trovare spazzatura da riciclare anche alle sorgenti del Mekong, in Tibet a quasi 5000 metri.

Anche il documentario Pomerol, Herzog & de Meuron  di Ila Beka e Louise Lemoine si concentra sulla dimensione di calore e comunità che vuole dare la costruzione della cantina francese. Volontà ottenuta solo parzialmente a causa forse di materiali usati, che non rendono giustizia in termini di acustica o estetica. Ma i vendemmiatori riescono comunque a trovare il modo di ballare sui tavoli (illuminati da luci apposta posizionate più in alto). Questo incrocio tra opposti viene affrontato dal documentario con un piglio ironico che mai cade nell’agiografia di un vino così pregiato.

Concludendo possiamo dire che il festival adotta una linea di strenua difesa del nostro pianeta, la nostra casa, vista in vari modi e varie forme. Una linea che si fa necessità impellente per un festival che prova a scardinare qualche stanca e comoda certezza di vita, quelle vecchie abitudini che, come diceva l’Artur Huang di Green Heroes alla stampa, dobbiamo radicalmente combattere.

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