"Milk" di Gus Van Sant
L'ultima bellissima pellicola del cineasta americano è un’opera imponente, complessa, in apparenza molto legata a un’identità mainstream, ma ricca di sottotesti teorici che oltrepassano la semplice dimensione del biopic e profondamente riconducibile alla poetica vansantiana, alla sua ossessione per la mercificazione dell'icona e la perdita di controllo dell'uomo sociale
Già Paranoid Park lasciava intravedere, dopo la trilogia brechtiana sull’alienazione composta da Gerry, Elephant e Last Days, un ritorno alla parola e alla narrazione che ne faceva una costola intermedia perfettamente equilibrata tra forma e racconto. Con Milk Gus Van Sant realizza probabilmente se non il suo capolavoro, il film che più di ogni altro possiede il respiro del “classico” all’interno della sua filmografia, mantenendo stretti legami con il grande cinema americano progressista e di denuncia della New Hollywood dei Lumet, Pakula, Forman.
Ispirandosi alla figura di Harvey Milk (interpretato da Sean Penn), il primo omosessuale dichiarato ad aver avuto accesso a una carica pubblica nell’America degli anni Settanta, il cineasta americano realizza un’opera imponente, complessa, in apparenza molto legata a un’identità mainstream, ma ricca di sottotesti teorici che oltrepassano la semplice dimensione del biopic. Da questo punto di vista, rispetto al lontano (e in parte discutibile) dittico hollywoodiano Will Hunting/Scoprendo Forrester, Milk si rivela opera profondamente riconducibile alla poetica vansantiana e alla sua ossessione per la mercificazione dell'icona e la perdita di controllo dell'uomo sociale.
Ripercorrendo la vita del protagonista dal 1970 al 1978, Van Sant attraversa un pezzo della storia e del costume americani mescolando la sapienza cronachistica ed emotiva di Jonathan Demme e del Bob Fosse di Lenny a influenze cinematografiche underground – in particolar modo Frederick Wiseman e Kenneth Anger – soprattutto in una prima parte raffinata e spiazzante, in cui la struttura del film biografico viene surclassata da uno stile che rimanda direttamente alla docufiction, grazie al miracoloso lavoro di desaturazione e di aderenza filologica compiuto sulla fotografia dal sempre più bravo Harry Savides. Da questo punto di vista, il ricalco estetico – e multiforme – a un cinema passato fa forse di Milk il film più concettualmente vicino allo Psycho del 1998. Un rapido excursus di linguaggi filmici "sporchi" e indipendenti per riprodurre con sorprendente libertà espressiva la San Francisco degli anni Settanta e le atmosfere urbane dalla cui oscurità fuoriescono gli omosessuali reclutati da Harvey Milk. Il recupero della materia cinematografica non frena però il coinvolgimento dello spettatore, ma anzi, come già in Paranoid Park, compone un flusso percettivo che nel caso di Milk sposa la cinefilia con la memoria storica.
E così tra inaspettate citazioni friedkiniane (quasi impercettibili frammenti di Cruising, ma anche di Festa di compleanno del caro amico Harold) Van Sant realizza un’opera che è soprattutto un grande saggio sull’immagine e la sua importanza all’interno della comunicazione americana: si veda non solo tutta la sezione dedicata alla terribile campagna stampa reazionaria del senatore Briggs, ma soprattutto il vero e proprio training mediatico e performativo compiuto da Harvey Milk nel corso del film, l’ambiguità promozionale che caratterizza la sua ascesa politica e, per contrasto, la frustrante staticità del conservatore Dan White (l’ottimo Josh Brolin). Forse paradossalmente è proprio quest’ultimo il personaggio più tenero e vicino al cinema di Van Sant. Incarnazione perfetta di quel corto circuito emotivo, dell’impasse esistenziale, che contraddistingue i protagonisti della sua filmografia e metafora di un'America perennemente condannata all'implosione.
Titolo originale: id.
Regia: Gus Van Sant
Interpreti: Sean Penn, Emile Hirsch, James Franco, Josh Brolin, Diego Luna
Distribuzione: Bim
Durata: 128'
Origine: USA, 2008
Personalmente preferisco di gran lunga il Van Sant narratore di questo film o delle sue prime opere come Drugstore Cowboy, che non il sopravvalutato autore minimal di Elephant e Last Days.
beh ci sarebbe da discutere… già paranoid park a mio parere apriva il cinema di van sant a una forma narrativa meno minimalista. questo suo ultimo film è eccezionale sotto molti punti di vista, primo fra tutti il fatto di essere, a mio parere, molto più sperimentale di quanto possa apparire a un approccio iniziale. quanto ai primi film (senza dimenticare Mala noche) sono innegabili cult movie, ma al momento mi sembrano un pò invecchiati rispetto alla sua ultima produzione. è sempre stimolante comunque confrontarsi con questo autore