Mille cipressi, di Luca Ferri
La razionalità modulare del cinema di Ferri adattata alla matematica delle forme non più fondata sulla coincidenza dello zero, ma sulla variazione millimetrica delle misure
C’è chi cerca il tempo ormai perduto e c’è chi, invece, con una medesima operazione di lavoro personale dentro un bagaglio fatto di immaginazione e prospettive, canoni interpretativi di una realtà composita e discernimento del brutto dal bello, cerca una possibile perfezione che si possa annidare laddove nessuno la vede, forse perché nessuno sa dove guardare. In un panorama non troppo confortante dove si spaccia per prova d’autore tutto ciò che si discosti da una realtà narrativa, solo perché resa incomprensibile da un susseguirsi di immagini del tutto inutili e carenti di ogni prospettiva che comprenda l’autorialità, il piccolo film di Luca Ferri offre una prospettiva di sguardo, offre una possibilità di dibattito, cerca una soluzione, davvero autoriale, all’interno di una propria progettualità visiva ed esegetica, che, come accade sempre, può più o meno piacere, ma diventa qualcosa di concreto, una traccia che incide sul tema e un punto di vista che possa distinguersi da tutto il resto.
Dopo le suggestioni bernhardiane di Si, questo Mille cipressi è il secondo capitolo di quella annunciata pentalogia sull’assenza e, parole del regista, cosa c’è di più assente se non l’assenza cimiteriale dentro la quale trovano forma le immagini di questo film.
L’oggetto di interesse questa volta è la tomba Brion, il complesso funebre disegnato e realizzato dall’architetto Carlo Scarpa e commissionato dai parenti di Giuseppe Brion, patron del marchio Brionvega, che ospita le sue spoglie e quelle dei parenti più stretti e finì per ospitare anche le spoglie del suo creatore, morto accidentalmente durante le fasi di lavorazione del complesso funerario che si trova in provincia di Treviso.
Ferri, che ha sempre utilizzato l’architettura come forma di interpretazione della realtà, resta catturato dalla codificazione di regole matematiche e dal manifestarsi di forme architettoniche che possano tradurre, in termini sintetici, razionali e non opponibili, il senso di ragionata razionalità e naturale affermarsi di una logica del ragionamento che prolifera nell’architettura quando questa diventa non solo modalità per aspirare ad una possibile perfezione, ma anche forma concreta di una coerenza che manca nella vita quotidiana, nelle relazioni umane e quindi nella vita collettiva, laddove la sovrabbondanza di mezzi di comunicazione azzera ogni possibilità di vero scambio di esperienze come forma reale della convivenza. Dopo il pessimismo di Si che approdava, con la complicità della scrittura del maestro austriaco, ad un grido disperato dentro una visione catastrofica del futuro, Mille cipressi si rifugia dentro la nicchia quasi protettiva di una tomba che costituisce, dunque, un riparo estremo e definitivo che possa segnare l’assenza assoluta da ogni ulteriore sviluppo di una umanità depauperata da ogni prospettiva. Il rifugio è dunque la bellezza, la razionalità che crea una bellezza modulare che si adatta ad una matematica delle forme che ricrea anche il procedere della creazione, non più fondata sulla coincidenza dello zero, ma sulla variazione millimetrica delle misure, che permette di approdare ad una differente possibilità di espressione e di manifestazione della perfezione.
È in questa prospettiva di dettaglio armonico che si esprimono le migliori architetture, non a caso Le Corbusier affermava che tra una buona e una cattiva architettura la questione è di pochi centimetri, ed è proprio dentro questi pochi centimetri, in questo dettaglio che costituisce forma e parte di quella progettualità, che è insieme autoriale e dimostrativa di un canone interpretativo dei fatti, che si staglia, netta, la voce pulita, nel suo fuori campo essenziale, di Assila Cherfi, ormai fida voce parlante del cinema di Ferri che ha bisogno di una naturale razionalità e universalità anche vocale – che Assila gli assicura – per dare completezza al proprio lavoro. Le parole del film sono quelle dello stesso Scarpa (conferenza di Madrid del 1978) e servono non solo a ridefinire il profilo teorico della sua costruzione, ma anche a fornire una traccia dentro un orizzonte più vasto, fatto di creatività e ricreazione dello spazio ragionato dentro il manifestarsi del caos che domina al di fuori di ogni altra espressione umana che non sia dominata da una pregressa forma di pensiero.
La tomba Brion, opera definitiva che Ferri non può inquadrare nella sua totalità poiché non riassumibile in un’immagine definitiva, ma visibile solo nel particolare che rivela la sua complessità, diventa per il regista bergamasco, così distante da ogni clamore e così estraneo allo stesso mondo del cinema moderno, l’ideale luogo dentro il quale meditare, insieme all’amato Scarpa e ai suoi multifunzionali insegnamenti, sull’assenza progressiva di umanità, sulla perdita di ogni innocenza in quel pessimismo attivo, anzi reattivo, che cerca sempre la forma possibile della perfezione con in mano un lume ad illuminare il cammino, siano le parole di Thomas Bernhard o le misure dei dettagli concentrici delle forme architettoniche protettive di Carlo Scarpa.
La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
Il voto al film è a cura di Simone Emiliani