MINE. SentieriSelvaggi intervista Fabio & Fabio

i registi Fabio Guaglione e Fabio Resinaro ci hanno parlato dell’idea alla base dell’ambientazione, il making of di Mine, delle scelte all’interno dell’industria cinematografica. ASCOLTA IL PODCAST

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Esce il 6 ottobre, in anteprima mondiale nelle sale italiane (in America dovranno attendere l’anno prossimo) il lungometraggio d’esordio di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro. Conosciuti nell’ambiente come Fabio&Fabio, i due filmaker milanesi (che scrivono, dirigono e post-producono) si sono fatti notare negli anni grazie ai corti e mediometraggi dal sapore fantascientifico e l’estetica futuristica, come The Silver Rope e AfterVille, conditi da un parallelo progetto produttivo con la Mercurio Domina che ha sfornato nel 2012 True Love, thriller dalle tinte fosche e sci-fi, del quale hanno curato anche sceneggiatura e post-produzione. Tanto che Peter Safran (produttore di Buried – Sepolto, The Conjuring e Annabelle) ha voluto fortemente collaborare con loro.
Mine, progetto in co-produzione tra Italia, Spagna e la Safran Company, distribuito da Eagle Pictures, racconta la storia di un soldato americano (Armie Hammer) di ritorno al campo base dopo una missione, che inavvertitamente poggia il piede su una mina antiuomo. Dovrà cercare di sopravvivere nel deserto per più di 50 ore, in attesa dei soccorsi.
Alla presentazione stampa di oggi, alla Casa del Cinema di Roma, erano presenti i due autori. “Il deserto è un non-luogo, non appartiene alla cinematografia americana, mentre è il soldato ad essere un personaggio americano: è una persona non libera, che esegue ordini per conto di altri. Nella trasformazione del personaggio lo vediamo abbandonare i vestiti da soldato, l’orologio – come concezione spazio-tempo occidentali, cambia pelle attraverso le escoriazioni e alla fine è un altro. Il nostro è un film di genere che al suo interno cambia il suo stesso genere“. E in effetti, nell’arco di quella che è stata conclamata da molti esperti del settore come una vera e propria rinascita di un certo cinema di genere italiano (si pensi a Lo chiamavano Jeeg Robot di Mainetti e Veloce come il vento di Rovere) anche i due Fabio vengono inseriti nella rosa dei registi della nuova generazione, anche se ci tengono a sottolineare che “il genere è un linguaggio per dire qualcosa, non è fine a se stesso, ma serve per raccontare qualcosa di più personale […] Rispetto alle influenze più evidenti, di film come Buried – Sepolto e 127 Ore, nel nostro film cambia la premessa: il nostro protagonista non è incastrato, ma bloccato. Il genere ci interessa nel momento in cui l’intreccio è lo specchio di ciò che accade al personaggio, come un gigantesco teatro di ciò che il personaggio sta vivendo.

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Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Fabio&Fabio sull’idea alla base dell’ambientazione, il making of del film, e le loro scelte all’interno dell’industria cinematografica. Ecco la nostra intervista ai due registi, di cui vi proponiamo anche  il PODCAST.

Voi avete sottolineato più volte che il deserto è un non-luogo che riflette lo status interiore del protagonista. Avete sempre avuto in testa questa ambientazione qui, o ci sono state delle opzioni differenti?
F.Resinaro:
A dir la verità, la prima idea in assoluto era completamente diversa. Avevamo pensato a un soldato inglese della prima guerra mondiale che calpestava una mina in un bosco ed era una situazione molto più naive, forse perché non era facile immaginare di poter trasportare questa storia, che è molto metaforica, in un’ambientazione reale. Fortunatamente poi abbiamo immaginato che sarebbe stato molto più vincente avvicinarla al pubblico, quindi al presente, al mondo reale.
F.Guaglione: Diciamo che nel momento in cui ci è stato chiaro che tipo di storia

fabioefabio2volevamo raccontare, il deserto con le dune si sposava proprio con l’idea di viaggio iniziatico che fa il personaggio. Infatti poi incontra questa specie di spirito guida, di sciamano, per cui invece di alcuni deserti afghani, più rocciosi, siamo  andati su un immaginario che riporta subito a quel tipo di percorso della coscienza.
F.R.: Sì, forse perché il deserto di dune rappresenta il mondo esterno in continua evoluzione; perché il deserto è continuamente mosso dal vento e cambia completamente scenario, e nel deserto di sabbia non esistono strade, questa è una chiave. E lui è un uomo che si è perso in qualche modo e deve ritrovare il suo percorso.

A proposito di vento, il vento è stata una delle maggiori difficoltà che avete riscontrato a Fuerteventura. Come avete fatto per mantenere la continuità fotografica?
F.R.:
Infatti è proprio così, Fuerteventura penso sia una delle capitali mondiali del kitesurf, quindi c’è vento praticamente tutto l’anno, un vento fortissimo. In realtà dal punto di vista metereologico siamo stati abbastanza fortunati, abbiamo avuto solo qualche giorno un po’ nuvoloso, fortunatamente siamo riusciti poi a sistemare le cose in post-produzione. L’altra difficoltà che il vento impone è quella sull’audio, sulla presa diretta, perché il vento crea un rumore di fondo molto fastidioso.

Infatti ho letto che avete preferito pulire in post-produzione l’audio per non ridoppiarlo. Questa scelta di stile è stata chiara fin da subito o ve la siete posta nel momento in cui giravate?
F.G.:
Diciamo che, essendoci dei momenti molto drammatici e molto intensi, e siccome le performance degli attori si sentiva che erano lì e in quel momento, non ce la siamo sentita di doppiare il film anche nei momenti più estremi, anzi abbiamo aggiunto più suono di vento, per mimetizzare il tutto. Anche visivamente il punto era che c’era talmente tanto vento che le nuvole si spostavano talmente veloci, che magari da un campo a un controcampo c’era super assolato/nuvoloso. Quindi noi abbiamo scelto i take migliori per la recitazione, e poi con la color grading siamo andati a creare un look che potesse andare bene. Quindi a volte magari avremmo voluto spingere di più sull’assolato, ma non potevamo perché nell’inquadratura era nuvolo, perciò abbiamo cercato di creare un look che fosse una media anche tra le condizioni atmosferiche.

Voi vi siete autodefiniti “infiltrati dell’industria cinematografica che preferiscono la pratica alla teoria“. Quali sono le difficoltà e i punti di forza che avete riscontrato negli anni avendo operato questa scelta?
F.G.:
Le difficoltà sono senz’altro da un punto di vista di percorso, nel senso che molte persone intorno a noi, tra cui agenti, avvocati, etc., ci consigliano di fare i registi per gli altri, quindi di dirigere storie di altri, di prendere progetti già pronti, etc. Però noi abbiamo questa necessità, questa voglia di raccontare le nostre storie e quindi cerchiamo di mantenere il controllo il più possibile. E quindi il pro è che lavorando così i film, belli o brutti che siano, sono più organici, sono più quello che era stato originariamente pensato.
F.R.: E in ogni caso sono nostri.

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