Missouri, di Arthur Penn

Jack Nicholson, il fuorilegge, contro Marlon Brando, il cacciatore di taglie. Un’ironica corrente anarchica mette in crisi il western. Ma c’è anche uno strano senso di decadenza

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È il 1976 quando Arthur Penn torna, per l’ultima volta, al western. Da lì era partito, quasi vent’anni prima, con la straordinaria intuizione dell’inquietudine adolescenziale di Billy the Kid, the left handed gun, in cerca di una visione più chiara e, forse, di un padre putativo. Un ragazzino, kid, caduto per una “svista” di Pat Garrett. L’eterna dannazione paolina, dell’occhio che vede come in uno specchio, in modo oscuro, motivo fondamentale di tutto il cinema di Penn. Che avrebbe poi ritrovato il genere sommo nel 1970, con le straordinarie avventure picaresche di Jack Crabb, il piccolo grande uomo, 121 anni di rughe e di ricordi, eternamente sospeso sulla linea di confine tra i bianchi e gli indiani. Un’età lunga quasi quanto tutta l’epopea della frontiera, la Storia vissuta e riletta da un’angolazione minuscola, con un’ironia sgangherata e dissacrante.

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Penn si ricorda di quell’ironia per Missouri. Che, per gran parte, sembra girare a vuoto e scherzare con il fuoco sacro della leggenda. Si gioca, maldestramente, a rapinare treni, si tira in ballo il mucchio selvaggio, si cita Jesse James, ma senza troppo credito. “Tu non sei Jesse James”, obietta l’impiegato delle ferrovie a Tom Logan, che certo non ha l’aria del bandito più implacabile del West. C’è il tempo, anche, per farsi beffe delle giubbe rosse canadesi. Come in un film di Aldrich, vengono derubate di tutti i cavalli proprio mentre innalzano le loro lodi al Signore e si affidano a Gesù. Ma guai a sottovalutare la “migliore polizia del mondo”!

Sì, un’aria di leggera follia attraversa il film. Come dopo una sbronza o una nottata passata in un bordello. Una vaga sensazione allucinatoria, che si mostra nella prospettiva sfocata del binocolo di Lee Clayton: altro specchio oscuro di un’umanità tutto sommato infantile, nonostante qualcuno, ostinatamente, giochi a fare il dio, a scrutare con il grande occhio tutto l’orizzonte e a dispensare premi e castighi. Perché, in fondo, la rilettura critica di Penn, la sua messa in crisi del western, si muove nel flusso di una corrente anarchica. La riaffermazione di una libertà indomabile e di un codice naturale. La difesa del bisogno contro le norme imposte dall’ordine e dagli interessi particolari di chi lo detiene, contro i giudizi capitali e i capestri, contro i “regolatori” che colpiscono da lontano, forse alle spalle, come un “cecchino imboscato”. Il che non significa, necessariamente, mettere a ferro e fuoco le cose. Del resto, nella stanchezza di Logan, nel modo in cui comincia a dedicarsi all’orto del suo nuovo ranch, alla cura del frutteto, c’è un desiderio di pace che va oltre i colpi e le fughe, i morti lasciati sul campo o i compagni appesi alla corda. E il suo amore per Jane, che è stufa di tutto questo West, è la vera rivoluzione che mina le leggi della decenza e della buona condotta. L’amore è fuorilegge. E, ovviamente, è inaccettabile.

Perché il dramma è dietro l’angolo, pronto a esplodere. Nonostante il tono scanzonato, si avverte anche una strana cupezza in Missouri. Nella storia di ladri di bestiame e di allevatori che assoldano bounty killer, già si presagisce la caduta dei cancelli del cielo. Nella gelosia di Braxton per la figlia Jane c’è il segno dell’attaccamento morboso del Mr. Carnahan di Four Friends. C’è, ovviamente, tutta una sottotrama di sviste, errori di valutazione, scelte non ponderate. Ma, soprattutto, il Lee Clayton di Marlon Brandon è sì la scheggia impazzita del film, con i suoi improbabili cappelli e vestiti, con i suoi borbottii e le assurde canzoni, con i travestimenti grotteschi e ridicoli. Eppure i suoi profumi floreali sanno di camposanto, così come la sua chioma canuta e il suo viso cadaverico: tutto in lui ha un che di trapassato. Brando è quasi al limite del suo istrionismo. Ma il suo personaggio si muove come una specie di angelo sterminatore malato, avvolge le praterie e le colline del soffio gelido della decadenza. “Sei quasi l’ultimo della tua razza, vecchio mio. Ti avrei portato in un circo…”, dice a Harry Dean Stanton. Ma forse si sta rivolgendo a sé stesso. E Jack Nicholson non può fare a meno di regolare i conti, per entrare in un’altra storia e in un’altra epoca. Alla fine Tom Logan e Jane si salutano. Lei parte, sulle note del tema d’amore della colonna sonora di John Williams. C’è una vaga promessa, da lì a sei mesi. Chissà quanto tempo occorre, davvero, per rincontrarsi. Forse quanto ne è servito a Georgia e a Danilo, dopo aver attraversato in lungo e in largo l’America. In fondo, questo è un grande paese.

 

Titolo originale: The Missouri Breaks

 

Regia: Arthur Penn

 

Interpreti: Marlon Brando, Jack Nicholson, Randy Quaid, Kathleen Lloyd, Harry Dean Stanton, John McLiam

 

Durata: 126’

Origine: USA, 1976

Genere: western

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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