Mistress America, di Noah Baumbach

Film definitivo sulla riscrittura dell’indie newyorkese in un’ottica di grrl power inedito, programmatico nel fondere mumblecore con ambizioni letterarie per tornare alla forma-teatro origirinaria

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Come a chiudere una trilogia iniziata con Frances Ha, il nuovo film di Noah Baumbach riprende in maniera sorprendentemente sfrontata la struttura e il meccanismo del precedente, non proprio ispiratissimo Giovani si diventa, e li contamina con le dinamiche della scrittura sempre su di giri della partner Greta Gerwig, che insiste su un autobiografismo rovesciato allo specchio e sul cortocircuito arte/vita e verità/finzione tanto caro al credo mumblecore, qui apertamente tirato in ballo dall’associazione letteraria Mobius che detiene lo status di Olimpo intellettuale del college frequentato dalla nostra protagonista Tracy.

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Potrebbe essere un film di troppo nell’elenco di quelli virati in un look a costine e quadrettoni di ammiccamento da party letterario in a basement down the stairs, di sicuro sembra essere quello definitivo sulla riscrittura dell’indie a base newyorkese in un’ottica di grrl power inedito, come di una Sarah Silverman che avesse frequentato un workshop di scrittura creativa da Nora Ephron. Mistress America è allora un titolo seriamente programmatico, che riesce a tenere insieme l’ambizione di scrittura dell’apatowiana Lena Dunham, la cui creatura seriale Girls sembra aleggiare nello script e nelle immagini, con la valenza iconica, probabilmente in alcuni frangenti anche troppo ingombrante, di Greta Gerwig: se è una sorta di risposta occhialuta a Un disastro di ragazza, lo è pure nei momenti in cui assomiglia spaventosamente al finto film-Sundance in bianco e nero che Amy Schumer (altro nome cruciale delle quote rosa della nuova Hollywood emancipata) e John Cena vanno a vedere insieme al cinema.

lola kirke greta gerwig mistress americaBaumbach è da sempre cineasta troppo avveduto per non notare la sfacciataggine reiterata della formula, e così ogni qualvolta il film si trova ad un passo dal trasformarsi nella propria autoparodia interviene con una battuta che ne depotenzia l’esasperazione per il gusto stilizzato con playlist alternativa invadentissima al seguito (menzione speciale del cuore per la celebre, meravigliosa Dream Baby Dream dei Suicide): “sembra di stare in un videoclip”, o “vivevo come uno di quelli su cui si basano i telefilm”, fino al puntualissimo “cosa avrebbe fatto Tennessee Williams” nel bel mezzo della sezione conclusiva tutta incastrata nella villa di vetrate di Dylan e Mami-Claire.

mistress americaRiguardo a questa specie di rappresentazione scenica a tema tradimento (qualcosa deve continuare a bruciare nell’intimo dell’autore: chi gli avrà mai rubato le idee in passato…?) su cui il film si concentra per tutto il suo atto risolutivo: si tratta obiettivamente di una grande prova di capacità di orchestrazione dei tempi comici e non solo, e delle traiettorie dei numerosi personaggi bislacchi che affollano il lussuoso salone di design della casa.

Al netto delle immancabili strizzate d’occhio alleniane (il chiaroveggente…) e attraverso lo sguardo di un cineasta che si è andato progressivamente depurando di ogni orpello autoriale o visionarietà di messinscena fino ad approdare alla forma minimal di queste sortite stropicciate alla bisogna, Mistress America ci racconta però in questa inaspettata resa dei conti da camera di una insopprimibile tensione e tendenza verso la forma del palco, della struttura teatrale, della pedana del proscenio a cui tutta questa tradizione che “non vuole uscire da Manhattan”, come ripete il personaggio di Tony, deve i suoi natali di stand up metropolitani e scorretti. I protagonisti qui sono perennemente in scena e sotto qualche tipo di riflettore, ma la vetrina del cinema pare interessare loro davvero poco.

Titolo originale: id.

Regia: Noah Baumbach

Interpreti: Greta Gerwig, Lola Kirke, Michael Chernus, Cindy Cheung, Joel Garland

Distribuzione: 20th Century Fox

Durata: 84′

Origine: Usa 2015

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