Moglie e marito, di Simone Godano

Il film viaggia ad un’effervescenza rinfrancante che ricorda nei momenti migliori il Nichetti più rosa, per riverniciare la nostra immortale tradizione per i giochi con gli equivoci. Produce Rovere

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Se facessimo l’esperimento di iniziare la visione del film di Godano dal momento in cui ci vengono svelati gli interni dell’abitazione in cui vive il personaggio di Valerio Aprea, ci ritroveremmo in pieno nel cinema italiano di design che spesso abbiamo incrociato in questi ultimi anni, tra un Paolo Genovese destrutturalista e un Edoardo Leo puntualmente smart: la scenografia soul kitchen che fa da casa del fenomenale Aprea diventa infatti la quinta di un’intera sezione del film dedicata al confronto da camera tra il nostro terzetto di protagonisti, che bilancia la straordinaria tensione bromance (“non permettere mai più ad una donna di mettersi tra me e te”) con dialoghi da telefonini bianchi (“quindi sei arrabbiato con me perché in realtà ce l’hai con te stesso!”).
E’ come se Matteo Rovere, produttore del film con la sua Groenlandia (fondata con Sydney Sibilia), e il regista Godano volessero dirci che l’attuale situazione industriale del cinema italiano rende possibile una commedia del genere, che per il resto viaggia ad un’effervescenza rinfrancante che ricorda nei momenti migliori il Maurizio Nichetti più rosa, solo se poi ad un certo punto si autocostringe a rinchiudere lo spunto d’importazione, orgogliosamente e scanzonatamente di genere, nelle strutture abituali – quelle che si svolgono ogni santa volta in quel tipo di open space riqualificato in cui secondo me nessuno abita per davvero, a Roma.

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Lo script – baldanzosamente guerrigliero nell’affrontare le spinose dinamiche delle definizioni di gender, con un finale-finale in questo clamoroso – di Carmen Danza e Giulia Steigerwalt diventa allora l’ennesima occasione per Rovere e soci di tentare di dimostrare che si può pensare ad una formula produttiva alternativa e rigenerata in Italia, qui come in altre occasioni esplicitata dalla fotografia ricercatissima dell’ineffabile Michele D’Attanasio (il quale stavolta esagera però sensibilmente con i lens flare…). Insomma raccontare con uno sguardo più attento alle pratiche riverniciate dell’immaginario transcontinentale e multiformato di questa generazione, e con un linguaggio alla velocità del presente, la nostra immortale e inscalfibile tradizione e passione per i giochi con gli equivoci.
Il bello è che quando questo capita agli attori della nostra scuderia loro ti sembrano rinfrancati, alleggeriti, in attesa da una vita di una possibilità simile, il dono di poter veicolare in ogni inquadratura e in ogni sequenza la grande gioia di un’occasione come l’esordio di Godano: e basterebbe concentrarsi su quanto appaiono felici delle potenzialità dei rispettivi ruoli Smutniak e Favino e confrontarli con la strana, svogliata tristezza sui volti dei nostri campioni del box office nei titoli recentissimi, per cogliere l’essenza migliore di Moglie e marito.
Abbracciando senza remore anche i passaggi più espliciti del copione (il sesso, gli assorbenti…), i due interpreti confermano la loro natura di corpi felicemente insoliti nel panorama nostrano: Favino potrebbe lanciarsi in un numero di ballo da un momento all’altro, come fossimo nel suo Servo per due a teatro, e Smutniak si rivela probabilmente come l’eroina definitiva del prototipo femminile tosto-imbronciato-metropolitano di Rovere/Sibilia.

Regia: Simone Godano
Interpreti: Pierfrancesco Favino, Kasia Smutniak, Valerio Aprea, Gaetano Bruno, Paola Calliari, Francesca Agostini, Sebastian Dimulescu, Marta Gastini
Distribuzione: Warner
Durata: 100′
Origine: Italia, 2017

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