Mon oncle, di Jacques Tati

Torna oggi in sala il terzo lungometraggio realizzato dal cineasta francese, mostruosa potenza di un cinema gigantesco, Gran Prix della giuria a Cannes e Oscar come miglior film straniero

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Due quartieri contrapposti. Da una parte quello popolare, dove abita Hulot. Dall’altro quello ultramoderno, in cui vive il npote del protagonista, Gérard, con i genitori in un’asettica villa ultramoderna. Una duplicità. Quasi una spaccatura. Come il cinema di Jacques Tati, continuamente sospeso tra classico e moderno, tra la nostalgia del muto e un continuo sguardo sul futuro. Come se con Mon oncle, e soprattutto con Playtime, dovesse già anticipare uno sguardo nuovo, dove lo spettatore all’interno dell’inquadratura dovesse già scegliersi la propria immagine. Ritagliarla, ingrandirla, vederla quasi con effetti 3D.

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Il personaggio di Hulot, qui protagonista per la seconda volta dopo Les vacances de Monsieur Hulot del 1953, guardato oggi sembra a più dimensioni. Come la sagoma di un cartoon. Che però ipnoticamente può ingigantirsi, diventare come una specie di King Kong dentro Parigi sospesa tra antico e moderno, tra i colori caldi del vecchio quartiere e quelli grigi e freddi di quello nuovo. Ma anche scomparire. Essere all’interno dell’inquadratura per attraversarla quasi con la discrezione di una comparsa per poi riapparire fugacemente come nello scherzo fatto dal nipote Gérard con i suoi amici con i ragazzini che fischiano per distrarre i passanti e farli sbattere contro un palo.

mon oncle jacques tatiIn Mon oncle Gérard è diviso tra la monotonia della casa ultramoderna dei ricchi genitori, gli Arpel, e l’allegria dello zio Hulot che lo porta a giocare spesso con sé. La sorella e il cognato cercano di inglobare il protagonista secondo dei canoni sociali e lavorativi preorganizzati ma i loro tentativi si rivelano disastrosi.

Vincitore del Gran Premio della giuria al Festival di Cannes nel 1958 e dell’Oscar come miglior film straniero l’anno successivo, Mon oncle, riguardato oggi a distanza di quasi 60 anni, è un film maledettamente profetico su come la tecnologia sta organizzando non solo i nostri comportamenti ma anche i piccoli gesti quotidiani, anche quelli che possono apparire più insignificanti. Quasi una sorta di pre 2.0, su come il progresso stia però spazzando un mondo che rischia di restare come residuo, di essere rappresentato solo attraverso i riflessi di un vetro. E invece iniziano a dominare azioni e rumori ricorrenti come il pesce con l’acqua della villa che si aziona ogni volta che viene qualcuno, i passi della segretaria della fabbrica, il citofono. E da questo punto di vista il lavoro di Tati è stato portentoso, anticipatore di un cinema sensoriale dove il suono ha la stessa importanza dell’immagine. Un cinema che diventa quindi anche uditivo. Non solo visivo. Non è un caso che il cineasta francese scriveva una sceneggiatura parallela per quello che riguardava la colonna sonora. In più tutti i rumori della città, degli oggetti, prevalevano sui dialoghi degli altri personaggi. Da cui emergono soprattutto i suoni delle parole piuttosto che il loro significato.

jacques tati mon oncleHulot non parla quasi per niente. Bofonchia appena. Il suo è un linguaggio prevalentemente del e sul corpo. Ma attraverso la sua impassibilità, mostra con Mon oncle uno tra gli sguardi più spietati della nuova borghesia francese. Come ha sottolineato Olivier Assayas “la rappresentazione sociale degli Arpel e il rapporto con Hulot sono tra le cose più crudeli mai viste al cinema…”

Ancora tra passato e futuro. Dove il comico del muto è ancora il cuore pulsante. La conflittualità di Hulot con gli oggetti rimanda a Buster Keaton e la gag della brocca d’acqua che rimbalza e del bicchiere che si rompe è ancora oggi l’esempio di come possa funzionare alla grande nella sua apparente semplicità e che invece fa emergere il complesso lavoro che ci sta dietro per pensarla, scriverla e poi filmarla. Ma c’è anche l’ombra di Charlie Chaplin. La macchina della fabbrica che impazzisce per una distrazione del protagonista e che fa uscire un tubo di gomma con dei rigonfiamenti simile a delle salsicce richiama quella per far mangiare gli operai di Tempi moderni. Mentre lo sguardo gioioso e al tempo stesso malinconico rilascia emergere frammenti della sintonia tra Charlot e la fioraia cieca di Luci della città.

mon oncle tatiMa Mon oncle ha influenzato fortemente anche il cinema del futuro. La maschera di Peter Sellers sembra figlia di Hulot. E forse Blake Edwards non può non aver pensato al ricevimento in casa degli Arpel nei disastri a getto continuo causati dal protagonista di Hollywood Party.

C’è però una scena che rivela tutto il tentativo e l’impossibilità di fermare il tempo da parte del cinema di Tati. Un giorno Hulot si saluta con la figlia della portiera. Lei è improvvisamente cresciuta. C’è un tempo che è passato di cui nessuno si è accorto. E in quel passaggio temporale c’è un tempo che non è stato mostrato. Che il cinema (e la vita stessa) non sono riusciti a catturare. Mostruosa potenza di un cinema gigantesco, un film troppo pieno per essere condensato in ‘solo due ore’. Quasi un kolossal di una comicità perduta e attualissima. Che ritornerà in forme ancora più estreme nove anni dopo con Playtime.

 

Titolo originale: id.
Regia: Jacques Tati
Interpreti: Jacques Tati, Jean-Pierre Zola, Adrienne Servantie, Alain Bécourt, Lucien Frégis, Betty Schneider
Distribuzione:Ripley’s Film/Viggo
Durata: 120′
Origine: Francia 1958

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4.33 (3 voti)
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