Mondiali Qatar 2022 e il deserto nelle cattedrali

Il trasporto narrativo dei Mondiali del 2022 riguarda non solo per dove ci porta, ma anche per ciò da cui ci porta via: la nostra stessa tediosa compagnia. Le storie sono già in fuga dal deserto…

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Si dice che noi esseri umani siamo in realtà animali che razionalizzano piuttosto che animali razionali. Sembra poco, ma non è così. Le razionalizzazioni sono narrazioni immaginarie che usiamo per convincere noi stessi, e auspicabilmente il resto del mondo, del fatto che il nostro ragionamento è sensato. Non abbiamo l’obiettivo filosofico della verità metafisica, ma la possibilità di influenzare gli altri. La narrazione serve a dare un senso al mondo. E lo fa semplificando il mondo. Tutta la narrazione è riduzionista. Non possediamo una narrazione, è la narrazione che possiede noi e chi racconta una storia governa il mondo. Tutto questo per dire, appunto, che siccome non c’era l’Italia ai Mondiali in Qatar, la prospettiva è cambiata, ci è sembrato di vivere nel deserto, tutti quegli spalti gremiti, costruiti e abbattuti subito dopo la finale, sembravano essere pieni di comparse, bambole gonfiate, Avatar senza anima, automi del Truman Show. Insomma, il deserto nelle cattedrali. Ecco che nella volontaria sospensione dell’incredulità, la campagna pubblicitaria di una celebre azienda di moda francese ha suscitato una grande attenzione planetaria. L’idea vincente della pubblicità è stata quella di riferirsi ad una competizione in uno sport di squadra come se fosse invece una sfida individuale in un gioco di strategia tra due uomini soli: Leo Messi e Cristiano Ronaldo. La fotografia, infatti, li vede intenti a sfidarsi a scacchi in una ricercata ed accurata ricostruzione di una storica partita realmente giocata. In un colpo solo è stato completamente ignorato ogni riferimento al collettivo, ma anche qualsiasi significato culturale o geopolitico di una così importante manifestazione.

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La fotografia non è il risultato di un’aggressiva o superficiale campagna pubblicitaria incline solo a suscitare scalpore, ma risponde in pieno ai mutati gusti del pubblico, ormai sempre più abituato ad immedesimarsi nelle vicende dei grandi fuoriclasse universali che trascendono perfino gli istinti tribali della massima competizione calcistica. In questo il calcio è oggi certamente globalizzato e i più grandi fuoriclasse non sono più solo degli eroi nazionali o dei temuti avversari, ma spesso riscuotono affetto ovunque nel mondo. La moderna rappresentazione del calcio – quella che, per usare una terminologia molto di moda al giorno d’oggi, è a tutti gli effetti la sua narrazione – in un malinteso tentativo di rendere lo sport più popolare del mondo anche più facilmente accessibile e fruibile da buona parte del pubblico, lo ha trasformato in un qualcosa che è a metà strada fra il videogioco e lo spettacolo televisivo. Il trasporto narrativo di questi Mondiali è forte non solo per dove ci porta, ma anche per ciò da cui ci porta via: la nostra stessa tediosa compagnia. Perché le storie, quelle soprattutto che superano le singole questioni tattiche e tecniche, sono una sorta di via di fuga che concedono un’evasione da noi stessi soprattutto, oltre che dai problemi del mondo. Stavolta sembravamo davvero essere assorbiti da una buona storia, tipo un giallo in cui L’armchair detective, il detective da poltrona , personaggio che offre le sue brillanti deduzioni senza aver mai ascoltato testimoni o senza mai essersi recato sulla scena del crimine, ma semplicemente leggendo ed analizzando i report che gli vengono sottoposti dal vero detective. Appunto, il tifoso da divano è l’equivalente calcistico del lettore che si immedesima nel ruolo dell’armchair detective: non ha mai allenato, non ha mai fatto il direttore sportivo e a volte nemmeno ha mai frequentato uno spogliatoio. Nonostante tutto ciò, però, dispensa – al bar o sui social network – brillanti soluzioni (tecniche, tattiche e di mercato) per la sua squadra di calcio.

In un Campionato Mondiale, ed in particolare in Qatar, investito di questioni culturali di non intuitiva decifrazione, il tifoso è tornato ad essere inconsapevole di ciò a cui stava assistendo, per la semplice ragione che i tanti armchair detective del calcio (in veste di opinionisti, commentatori o editorialisti) gli hanno sempre offerto intuizioni e deduzioni afferenti solo a tutto quello che avviene sul campo. L’organizzazione di questi Mondiali in Qatar, d’altra parte, conteneva in se stessa un peccato originale, diciamo anche diversi indizi che facevano una prova, fondato proprio sulla diversità culturale. Infatti, perché giocare in una Nazione con valori culturali così in antitesi con quelli promossi dalla FIFA? Come comportarsi di fronte alla posizione del governo qatariota in tema di diritti della comunità LGBTQ+? Ed ancora: come accettare l’orrore degli oltre sei mila morti – sacrificati in un lavoro senza diritti – per poter costruire gli stadi della manifestazione? Ancora una volta, il deserto nelle cattedrali, o meglio, la polvere dei cadaveri. Ogni considerazione su questo Mondiale non può prescindere dal riconoscimento di questa vera e propria incoerenza culturale e, se è vero – come detto dal presidente della FIFA, Infantino – che questo “è stato un Mondiale perfettamente riuscito e che le persone di tutto il mondo hanno goduto di uno spettacolo calcistico di grande livello”, è altrettanto vero – come scritto al riguardo da Jorge Valdano, grande ex campione argentino, – che “non si può rubare una candela nemmeno per leggere la Bibbia”. Fuor di metafora: abbiamo visto uno splendido Mondiale che non avrebbe dovuto nemmeno essere giocato. Ed è ancora Jorge Valdano ad offrire la possibilità di eludere il conflitto interiore sul tema dell’organizzazione di questi Mondiali in Qatar, con una sua raffinata considerazione su un duplice piano di significati. L’Occidente “non deve arrogarsi un ruolo di polizia culturale del mondo intero, senza tenere mai in alcun conto i contesti geografici e storici”. Ecco allora che possono apparire fuori contesto allo stesso modo sia il tiki taka spagnolo in ambito strettamente calcistico – umiliato dal gioco speculativo e senza possesso palla di Giappone (confuciano) e Marocco (arabo, più che africano…) – sia (in ambito geopolitico) la protesta delle Nazionali europee con la richiesta di giocare con la fascia da capitano arcobaleno e non con quella prevista.

La rinuncia collettiva dei seppur individualisti Inglesi a questa forma di protesta e la rivendicazione ufficiale, con una foto di squadra pre partita polemica, dei disciplinati ma irriducibili Tedeschi, non costituiscono altro che un’ulteriore caratterizzazione culturale specifica, nella vicenda. In sostanza, Valdano sottolinea come la tentazione di ritenersi superiori culturalmente sia una costante del mondo Occidentale, sul campo da calcio (con l’imposizione dello stile di gioco ritenuto migliore) come sul campo dei valori da rispettare (con quella sugli standard cui uniformarsi). È ancora, ed infine, Jorge Valdano a proporre la chiave interpretativa della cultural intelligence quando scrive che “ogni Coppa del Mondo è come un parco divertimenti a tema calcio. Un orgoglio condiviso, un’incertezza che può finire in felicità o in dramma. Uno scontro di culture che rafforza le identità, senza bisogno che le bandiere entrino in guerra”. Come auspicio per il futuro, si potrebbe quasi dire che mentre le Olimpiadi nell’antichità erano una tregua sportiva in mezzo alle guerre, i moderni Mondiali di calcio potrebbero essere l’unica pacifica guerra culturale in un sereno e tollerante mondo multiculturale. Ed è stato proprio in questo gigantesco parco divertimenti calcistico che si sono registrati, in questo mese, diversi ‘crash culturali’, ovvero comportamenti normali in un determinato contesto sociale, ma non compresi – perché anormali – fuori di esso. D’altra parte mentre la legge stabilisce il discrimine tra ciò che è ‘legale’ o ‘illegale’ e la regola tra ciò che è ‘regolare’ o ‘irregolare’, è proprio la norma sociale non scritta che determina quello tra ‘normale’ e ‘anormale’.

Abbiamo visto un calciatore disperarsi per l’eliminazione della sua squadra dovuta ad un suo rigore sbagliato, piangendo ininterrottamente a capo chino, durante l’intervista post partita. Kaoru Mitoma è giapponese e la sua è una cultura nella quale la vergogna è sia un regolatore sociale sia l’unico stato d’animo dimostrabile in pubblico. Quasi nella stessa situazione (rigore sbagliato, ma qualificazione ottenuta) l’argentino Enzo Fernandez è stato immortalato mentre chiedeva perdono al suo pubblico in mezzo al campo, con le mani giunte. Nella cultura cattolica è la colpa ad essere prevalente e mentre Mitoma ha rivolto la vergogna verso se stesso, Fernandez ha provato il senso di colpa nei confronti delle persone che riteneva di aver tradito. Gli sguardi impauriti dei calciatori iraniani durante l’inno nazionale (l’Iran è una delle nazioni presenti a questo Mondiale nelle quali è la paura ad essere il regolatore sociale) ci lascia immaginare il dramma personale che avrebbe vissuto un rigorista fallace di questa squadra, in una sfida decisiva. Giappone (cultura confuciana) e Marocco (cultura araba) sono agli estremi opposti della dimensione culturale dell’affettività/neutralità. La differente maniera sociale di intendere la manifestazione pubblica dei propri sentimenti ha visto in queste due squadre nazionali altrettanti campioni esemplificativi del comportamento neutro (Giappone) o affettivo (Marocco). La compostezza nella sconfitta della squadra giapponese – con origami lasciati in omaggio dentro spogliatoi puliti in maniera esemplare – è un modo di rispettare i luoghi nei quali si è ricevuta l’ospitalità e che trova un corrispettivo nell’identico comportamento dei propri tifosi che hanno ripulito gli spalti degli stadi occupati, sempre e ad ogni partita. Questo comportamento ‘normale’ nella cultura giapponese ha meravigliato il mondo, così come anche l’inchino (precisamente il Saikeirei, il più rispettoso possibile) dell’allenatore Moriyasu al suo pubblico, dopo l’eliminazione. In questo caso, peraltro, ‘l’anormalità giapponese’ ha destato molta più ammirazione e meraviglia che sconcerto e stupore.

Di fronte alle scomposte manifestazioni ‘ultra affettive’ di rabbia, disperazione e tristezza dopo le sconfitte, tutte le culture hanno invece apprezzato la naturalezza culturale (quasi un ossimoro) della neutralità giapponese. A questo proposito, il deprecabile gesto del portiere argentino Martinez sul palco della premiazione – gesto a quanto pare bivalente, perché utilizzato a volte con impeto rabbioso, a volte con intento gioioso – è tipicamente monoculturale. Lo utilizzano, perché ne hanno consuetudine, solo i Latini (sia quelli europei sia quelli americani) ed eventualmente alcuni ospiti della loro cultura. In questi Mondiali lo ha ad esempio utilizzato anche il serbo Vlahovic. La parte bella e positiva dell’affettività culturale l’hanno dimostrata i due calciatori marocchini Hakimi e Boufal, che hanno festeggiato le loro vittorie baciando pubblicamente la propria madre (Hakimi) o ballando davanti a tutti con lei sul campo (Boufal). Un discorso più approfondito merita la questione relativa alle manifestazioni di gioia dei calciatori argentini e di rabbia di quelli olandesi nel loro quarto di finale, che è stato sia un incontro sportivo di altissimo livello tecnico, sia uno scontro culturale durissimo. Deridere un nemico vinto e inginocchiato per lo sconforto è universalmente considerato vile e antisportivo, ma nell’incredibile foto nella quale l’intera squadra vincente (l’Argentina) esulta provocatoriamente in faccia a quella sconfitta (i Paesi Bassi) esistono, se non delle giustificazioni sportive, almeno delle spiegazioni culturali rilevanti.

Il particolare gesto provocatorio – eseguito una prima volta da Messi dopo la realizzazione del rigore del due a zero e ripetuto, una seconda, da Otamendi e Paredes al termine dell’esecuzione decisiva di Lautaro del quinto e decisivo rigore – non era il solito invito, con le mani alle orecchie, rivolto al proprio pubblico affinché si facesse sentire con il suo entusiasmo, ma era una vera e propria citazione calcistica d’autore. Il gesto, nel calcio argentino, è conosciuto come ‘el Topo Gigio’, dal nome del pupazzo della televisione italiana, molto popolare anche in tutto il Sudamerica. L’autore del gesto – e soprattutto colui che ha dato il nome a questa esultanza – è Juan Roman Riquelme, straordinario calciatore argentino di una decina di anni fa ma, soprattutto, in questo caso, acerrimo nemico di Louis Van Gaal, il detestato (dagli Argentini) allenatore dei Paesi Bassi. Van Gaal era accompagnato, già prima della partita, da una solida fama di nemico dei calciatori argentini, per aver avuto problemi nella sua carriera con almeno tre di loro, ovvero Riquelme al Barcellona, De Michelis al Bayern Monaco e Di Maria al Manchester United: non proprio tre qualunque. Le ricostruzioni delle loro vicende personali sarebbero un’ulteriore conferma di quanto le incomprensioni culturali possano incidere anche nei rapporti professionali ai massimi livelli possibili. Le dichiarazioni su Messi prima della partita (annullabile, secondo Van Gaal, dalla sua squadra come avvenuto già ai Mondiali del Brasile otto anni prima), non sono state altro che il detonatore della rabbia argentina nei suoi confronti. Nella comunicazione gli olandesi si comportano esattamente come i britannici nel fair play in campo.

Sia per gli uni che per gli altri, il vero rispetto è quello di non risparmiare agli altri la verità per quello che è, sia sotto forma di dure parole sia sotto quella di un pesante punteggio da infliggere. Sono i latini – a quel punto – che, con una contro intuizione culturale, invece, interpretano questa durezza, per loro inusitata, come se fosse un affronto personale del quale tenere conto in futuro, qualora il destino riservi l’occasione della vendetta. Anche le esultanze folcloristiche, peraltro, non sono solo una questione generazionale, come abbiamo ben visto in questo mondiale. I balletti dei calciatori brasiliani, ad esempio, sono stati ben accolti – come sempre del resto – in Brasile, ma lo sono stati molto meno in altre parti del mondo. I due commentatori della televisione inglese, l’irlandese Roy Keane e lo scozzese Graeme Souness, hanno apertamente accusato i calciatori brasiliani di essere dei frivoli provocatori per le loro esultanze, arrivando addirittura, nel caso di Souness, a teorizzare una possibile vendetta degli avversari dovuta ad una più che meritata punizione per spocchia ed arroganza calcistica. Keane e Souness – lo dicono sia la loro provenienza culturale celtica sia la loro personale storia calcistica – sono due uomini con una visione del calcio molto differente da quella dei ballerini esultanti brasiliani, oggetto dei loro strali. Ed è inevitabilmente diversa anche l’idea – meno allegra e fatua – del valore della realizzazione di un gol rispetto a quella di Neymar, Richarlison e molti dei loro compagni di squadra. Resta, peraltro, da vedere se siano migliori i ‘seri e responsabili’ valori culturali dei due commentatori della televisione inglese, rispetto a quelli gioiosi (e da loro considerati irresponsabili) dei calciatori brasiliani. Ritornando al confronto tra Ronaldo e Messi, questo Mondiale ha visto il primo rimanere avviluppato in un ruolo – a metà strada tra Dorian Gray e Peter Pan – dal quale non ha saputo emanciparsi. Come il “Dorian Gray” di Oscar Wilde, Ronaldo ha preteso di restare giovane rimanendo infine ossessionato sia dalla forma fisica sia dalla propria immagine.

Come lui, ha inconsciamente iniziato la propria autodistruzione nel momento stesso in cui ha preso atto della transitorietà della sua giovinezza e della sua ‘bellezza calcistica’. Come Peter Pan – e diversamente da Pinocchio, che alla fine comunque cresce – Ronaldo non è mai cresciuto ed è voluto rimanere libero nella sola responsabilità verso se stesso, senza le preoccupazioni degli adulti per continuare ad essere egoista come possono essere solo i bambini. Infine, anche Ronaldo – come il Peter Pan che vede attraverso i vetri sua madre con un altro bambino – è andato incontro alla delusione di scoprire (con l’esclusione dalla squadra titolare, il giorno dell’ottavo di finale contro la Svizzera) di non essere insostituibile, perché esisterà sempre, nel calcio come nella vita, qualcuno che può prendere il nostro stesso posto. Messi, al contrario, si è dimostrato incline a cambiare il suo ruolo, per passare da quello di giovane o maturo campione – responsabile solo di se stesso e delle sue prestazioni – a quello di esperto fuoriclasse con la responsabilità dell’intera Argentina, intesa sia come squadra Nazionale sia come popolo. La sua particolarità in questo Mondiale di nuove stelle (Bellingham, Saka, Mbappé, Gvardiol, Enzo Fernandez tra gli altri) è quella di avere – forse come ultimo campione della storia calcistica – una doppia cultura: quella della strada di Rosario e quella accademica del Barcellona. Il duello finale è stato tra Francia e Argentina, tra il calcio in prosa europeo e quello in versi sudamericano, secondo la brillante definizione di Pier Paolo Pasolini. Ridurre una partita (la finale tra Francia e Argentina) letteralmente strabiliante per bellezza – quantomeno dal minuto ottanta fino alla realizzazione dell’ultimo rigore decisivo – al solo confronto tra i due fuoriclasse Messi e Mbappé sarebbe un’ingiustizia sportiva nei confronti di tutti gli altri protagonisti e soprattutto una sciocchezza logica inconcepibile: il calcio è – e sempre rimarrà, a prescindere da ogni possibile deriva culturale individualista – uno sport di squadra. Solo il collettivo coeso socialmente e culturalmente potrà mettere la bravura del singolo nella condizione di ‘fare la differenza’ ed è nient’altro che la retorica della sfida tra il potere e la saggezza, tra la forza e l’astuzia a portare sempre i cantori di tutte le epoche ad esaltare solo gli Achille e gli Ulisse, gli Mbappé o i Messi.

Essendo i Mondiali in Qatar cominciati tra le polemiche legate alla corruzione e agli inconciliabili conflitti culturali, era quasi inevitabile che si dovessero concludere allo stesso modo. La premiazione sul palco con l’omaggio culturale del Bisht, un capo di abbigliamento tipico del mondo arabo – ha subìto inevitabilmente la sorte di tutto ciò che è appunto ‘culturale’: ovvero una valutazione contro culturale. Pensare che si trattasse solo di una violazione del protocollo di premiazione (mai era successo nella storia della Coppa del Mondo qualcosa di analogo) evidentemente è sembrato troppo poco nel mondo occidentale, sempre suscettibile, diffidente e – a conti fatti, evidentemente, anche insicuro – per accettare usanze diverse dalle proprie e non conosciute. Il Bisht è un equivalente levantino dello smoking occidentale che si indossa in determinate circostanze. Il gesto nella premiazione non voleva essere altro che un onore riservato al calciatore che avrebbe, in pochi istanti, ricevuto la Coppa del Mondo. È paradossale che si accettino quantità incredibili di denaro da parte di chi, evidentemente, stima la cultura occidentale e cerca per il suo tramite di far conoscere nel mondo la propria, e poi – dopo aver portato con sacrifici non indifferenti il proprio gioco culturale per definizione (il calcio) in quella parte del mondo – ci si chiuda a riccio per paura di contaminazioni pericolose. Quindi il deserto nelle cattedrali vorrebbe essere una richiesta di incontro, apertura, accoglienza reali, oltre i confini esclusivamente affaristici, magari a centrocampo, dove si decidono da sempre le partite di calcio, anche grazie a falli tattici, ma dove sei costretto a costruire e non esclusivamente spingere lo spettatore, quale consumatore, nel ramificato albero delle possibilità narrative in una maniera prestabilita per ottenere la sua adesione al messaggio, al risultato finale. Il deserto nelle cattedrali invece potrebbe essere soltanto un inevitabile ritorno al futuro, appena la coppa sarà alzato al cielo, i motori delle ruspe evocheranno l’abbattimento di un sogno. E gli imperi della modificazione comportamentale potranno allontanarci definitivamente dal caloroso vecchio mestiere del racconto, dell’ascolto, della visione senza persuasori virtualmente occulti e in pantaloncini.

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