Monica Vitti. La donna camaleonte

Il nostro ricordo approfondito sull’attrice scomparsa lo scorso 2 febbraio a 90 anni

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Ci sono notizie che non vorremmo mai ricevere, come un qualcosa che rimuoviamo dal pensiero e che invece ogni tanto fa capolino proiettando pesanti ombre. La scomparsa di Monica Vitti è il distacco definitivo da una persona cara, qualcuno che ci ha accompagnato nel corso degli anni e ha contribuito ad alimentare la passione della cinefilia. Per chi scrive Monica Vitti rappresenta l’attrice italiana più importante dalla fine degli anni ’50 fino all’inizio dei ’90, capace di imprimere ad ogni personaggio interpretato un originale tocco di autrice, una brillante costruzione che partiva dalla voce e finiva in camaleontici travestimenti.

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All’anagrafe Maria Luisa Ceciarelli, sceglie un nome d’arte composito che deriva per metà dal cognome materno (Vittiglia) e per l’altra metà dall’eroina di un libro tedesco. Sin da adolescente innamorata della recitazione (che rappresenta una via di fuga da una realtà esistenziale non sostenibile, già a 14 anni ha pensieri depressivi) viene ammessa per un soffio all’Accademia d’Arte Drammatica anche se l’otorino le dice che ha una voce non adatta e le consiglia un’altra carriera. Inizia un percorso fortunato perché incontra persone capaci di individuarne subito l’immenso talento: i primi sono Silvio D’amico e Sergio Tofano che ne apprezzano la bravura sia nel repertorio classico teatrale (Shakespeare, Moliere) che in quello della commedia e del teatro cabaret.

Monica Vitti lavora anche intensamente come doppiatrice ed è in questo ruolo che la scopre Michelangelo Antonioni durante la lavorazione de Il grido (1957). Da qui nasce un sodalizio artistico e sentimentale che porterà alla creazione di quattro capolavori del cinema mondiale: L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Deserto rosso (1964). Claudia, Valentina, Vittoria e Giuliana sono quattro personaggi femminili moderni, densi di sfaccettature, con una gamma di sfumature psicologiche e psichiatriche che vanno dalla nevrosi sino alla psicosi. Monica Vitti è letteralmente autrice di questi personaggi, li plasma attraverso le pause e i silenzi, li dipinge attraverso sguardi disperati e sensuali, li completa attraverso la sua bellezza atipica e la intonazione della voce. In questi quattro film la Vitti è sceneggiatrice dei suoi dialoghi che rende coerenti attraverso un magico equilibrio tra vita reale e finzione scenica. Ed è anche regista del proprio mondo interiore contraddittorio in cui alla spinta vitale passionale si alterna la lucida consapevolezza della miseria della natura umana. Le problematiche dell’alienazione e dell’incomunicabilità nel rapporto di coppia non sono mai vissute passivamente: la Vitti le rielabora e detta il tempo ad attori consumati come Gabriele Ferzetti, Alain Delon, Marcello Mastroianni e Richard Harris. Ecco perché senza la attrice romana le opere di Antonioni perderebbero una grossa parte del loro potenziale eversivo a maggior ragione se ricollocate nel periodo storico dei “favolosi” anni ’60.

Se “il comico è il tragico visto di spalle” non bisogna sorprendersi della svolta ironica della seconda parte della carriera di Monica Vitti. L’ironia, l’autoironia, il grottesco, la satira quasi surreale è una risposta difensiva a questo complesso dramma interiore che rischia di sfociare nell’auto-soppressione. Ma guai a scambiare la risata e la leggerezza per superficialità, “perché leggerezza non è superficialità ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. La stessa attrice dichiarerà che la vis comica è una risposta di sopravvivenza ad una realtà insostenibile, un principio di azione-reazione in cui l’intensità dei picchi umoristici è direttamente proporzionale a quella delle cadute tragiche. Lanciata da Luciano Salce (Ti ho sposato per allegria, 1967) e Tinto Brass (Il disco volante, 1964), buca letteralmente lo schermo con La ragazza con la pistola (1968) di Monicelli in cui interpreta la iconica Assunta Patanè ragazza siciliana che deve vendicare l’onore violato dal Don Giovanni Carlo Giuffré. Da questo manifesto protofemminista in cui la Vitti ribalta il luogo comune della ragazza siciliana arretrata e legata al codice d’onore per renderla donna emancipata e indipendente che si libera dalle catene di una società maschilista, si dipanano due filoni che sfrutteranno magistralmente le doti camaleontiche dell’attrice: il primo è quello della commedia all’italiana in cui starà letteralmente alla pari con nomi monumentali come quelli di Tognazzi, Gassman, Sordi, Mastroianni, Manfredi e il secondo è quello della opera da avanspettacolo in cui vengono esaltate le doti di canto e di ballo e rispolverate le sue origini del teatro-cabaret. Del primo filone ricordiamo Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) (1970) di Ettore Scola in cui la comunista Adelaide si dibatte tra la maturità nevrotica di Mastroianni e il giovanilismo rampante di Giannini, Teresa la ladra (1973) diretto da Carlo di Palma il grande direttore della fotografia che sarà anche il suo secondo compagno di vita, L’anatra all’arancia (1975) di Luciano Salce in cui la Vitti raggiunge vertici di comicità irresistibile e Io so che tu sai che io so (1982) di Alberto Sordi in cui la speciale alchimia con il grande attore romano si arricchisce di una importante critica sociale. La satira dell’ Italia post boom si concentra trasversalmente dalle classi proletarie a quelle dell’alta borghesia con una particolare sottolineatura sulla distanza tra i propri ideali ed una realtà sempre più cinica e degradata.  Del secondo filone sono indimenticabili le prove della Vitti in Polvere di Stelle di Alberto Sordi, Ninì Tirabusciò la donna che inventò la mossa (1970) di Marcello Fondato e La Tosca (1973) di Luigi Magni dove Monica Vitti sfodera tutte le sue doti artistiche e tiene da sola la scena. Nel frattempo non disdegna importanti collaborazioni internazionali come quella con Joseph Losey nello spionistico Modesty Blaise – La bellissima che uccide (1966) e quella con Luis Buñuel nel surreale Il fantasma della libertà (1974).

La vena malinconica e il dramma amoroso sembrano riaffiorare nell’ultima parte della sua carriera, quella che la vede accanto al terzo uomo più importante della sua vita, il fotografo e regista Roberto Russo. Da questo importante sodalizio sono da recuperare Flirt (1983) una storia d’amore tra allucinazioni e depressione che frutterà all’attrice l’Orso d’argento per il miglior contributo singolo al Festival di Berlino e il suo unico film da regista, Scandalo segreto (1990), che rivela moltissimo della sua visione della vita, dei rapporti umani e del suo senso dello stare al mondo. Dopo alcune apparizioni negli anni ’90 e 2000, la grave malattia neurologica che la colpisce la terrà lontana dalla ribalta pubblica e di lei arrivano solo notizie frammentate e sporadiche. La sua assenza diventa presenza insostituibile nell’immaginario collettivo cinefilo. Con la scomparsa di Monica Vitti se ne va l’ultimo pezzo di una stagione indimenticabile del nostro Cinema ed anche una interprete camaleontica capace di mutare pelle ad ogni occasione facendo propria la visione di ogni singolo regista. Ma non c’è mai stata nessuna contraddizione in questo, come tutti gli artisti geniali, Monica Vitti conteneva moltitudini. E con la sua leggerezza ci ha tolto molti macigni dal cuore.

Sono abituata a vivere con poco, non guido la macchina, non amo i gioielli, porto un paio di scarpe finché non cade a pezzi, mi vesto così come viene. Sono contenta così. Dicono che il mondo è di chi si alza presto. Non è vero. Il mondo è di chi è felice di alzarsi.

– Monica Vitti –

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