Monte Hellman, l’anomalo reazionario

Un cineasta anomalo che ci ha lasciato un piccolo patrimonio di immagini dentro le quali rielaborare il fatlismo e l’incertenza del vivere.

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Suscitò grande attenzione il cinema di Monte Hellman, quando nei tardi anni settanta i più attenti scoprirono il suo cinema. In effetti la sua era stata una carriera fino ad allora quasi mimetizzata dentro le pieghe della grande produzione hollywoodiana e per lui, newyorkese da sempre appassionato di teatro e poi entrato a fare parte della mitica Factory di Roger Corman, non sembrava potesse esserci che un posto in fondo tra tanti altri registi indipendenti tutti che lavoravano per erodere le certezze dell’industria cinematografica, concedendo poco o nulla allo spettacolo e puntando dritti ad una intellettualizzazione del cinema. Anche in questo Monte Hellman fu anomalo e del tutto anomala, per queste ragioni, fu la sua presenza tra gli indipendenti. Una presenza, anche qui quasi silenziosa, determinante, poiché, con il cinema che via via avrebbe realizzato, si sarebbe assestato come autore capace di cogliere, dentro la classicità dei generi e il consolidato linguaggio codificato che possiedono, la possibilità di inserire i temi di una riflessione più generale, che non era solo legata ad una precarietà della condizione umana, ma sapeva scavare nel concreto di un reale sfuggente, alla ricerca di una specie di metafisica della salvezza che comprendeva anche una più larga riflessione sulla società americana.
Dopo un periodo di apprendistato dentro gli ingranaggi della scuderia di Corman, con cui realizzò il suo primo film Beast from the Haunted Cave, che divenne una specie di remake di Key Largo, al quale ne seguiranno altri due Backdoor to hell e Flight to fury. Il primo un film di guerra, rimontato dai produttori, e l’altro, scritto con Jack Nicholson, al quale Hellman fu sempre affezionato e che definì “un pastiche di film esotici di Alan Ladd e Humphrey Bogart”. Due film a costi molto bassi, che già permettevano di riconoscere in Hellman un rimasticatore dei generi, ma anche un innovatore, un regista pienamente dentro le logiche produttive, ma sfuggente ai compromessi. Dopo queste due esperienze rivelò le sue vere doti di creatore di atmosfere cinematografiche rarefatte e metafisiche con due film pienamente inseriti nella tradizione narrativa americana, poiché non c’è nulla di più americano, dopo la Coca Cola, che il western. È proprio su questo genere all’epoca ancora non così consumato, ma vivace nonostante le sue riletture e le sue reinterpretazioni che Hellman interviene con il suo lavoro di regia e di scrittura. Riletture e interpretazioni del western che sarebbero arrivate più tardi, sul finire degli anni ’60, a cominciare da registi che appartenevano alla stessa sua generazione, come l’amico Sam Peckinpah, che pure collaborò con lui in qualche film prestando perfino la sua faccia in qualche ruolo secondario. È nel 1965 che Hellman gira Le colline blu e, a seguire, La sparatoria. Due film che con la loro natura apparentemente consueta, dentro tutti i canoni

del filone a cominciare dall’inseguimento per finire a quello della legge delle pistole, diventano due irraggiungibili archetipi di quella frantumazione dell’epica western, per diventare due storie e soprattutto due film dentro i quali ritrovare lo straniamento e la dissoluzione dell’eroismo, contrappuntata dall’epica di una minimale precarietà che per la prima volta, nell’ovest infuocato dalle pistole, diventa accettazione quasi supina di un destino al quale sembra difficile sfuggire. I tre personaggi protagonisti sono ingiustamente accusati di avere assaltato una diligenza. Sanno che difendersi sarà inutile, l’unica speranza è quella di sfuggire all’impiccagione. Se Le colline blu conserva ancora la superficie e la confezione di un western quasi classico, ma già eroso alle sue fondamenta dalla solitudine esistenziale dei suoi personaggi, tutto sembra essere accentuato in La sparatoria. Il film, ancora più estremo in alcuni suoi assunti, è girato con gli stessi attori, Nicholson, Harry Dean Stanton, Milly Perkins con i quali aveva appena finito di girare il film precedente, ma anche i luoghi sono i medesimi, sapientemente innovati all’occhio dello spettatore da riprese con differenti angolazioni rispetto al lavoro precedente. Questo secondo film, prosciugato quasi dalla storia, si snoda in una lunga fuga nel deserto di due uomini accusati di omicidio e di un cinico pistolero che si aggiunge, che dovranno scortare una donna che per ragioni non dichiarate deve attraversare il deserto. Si parlò, a ragione veduta di influenze beckettiane per il cinema di Hellman e di una bressoniana sensibilità verso un’umanità dei personaggi che sa esprimersi in quella poetica dei piccoli gesti e della condivisione di un fatalismo al quale non ci si può ribellare. Le storie sono narrate dentro questi paesaggi che nulla hanno a che vedere con la monumentalità propria del western fordiano e i personaggi non possiedono le doti empatiche del solitario cavaliere del west. Tutto è ridotto, tutto è perfino dimenticabile, a cominciare dagli scenari. È in questa stessa ottica che il suo cinema continuerà a lavorare e non sarà dissimile l’altro western del 1978, il cui titolo originale China 9, Liberty 37, fu tradotto in Amore piombo e furore e diretto con lo pseudonimo di Antonio Brandt. Un western minimo, in cui la sensualità dell’allora giovane Jenny Agutter viene contesa dal marito, l’onnipresente Warren Oates – ci sarà sempre un ruolo per lui nei miei film, ebbe a dire il regista – e la prestanza di Fabio Testi. Altro film nel quale si legge in filigrana quel destino al quale è impossibile sfuggire, che si materializza in una eterna fuga, che nei film di Hellman si traduce quasi sempre in una colpa oscura di cui non sembra possibile dimostrare l’incolpevolezza. Tutto assume un profilo kafkiano, il che esaspera gli equilibri dentro i topoi del genere, conservando comunque sempre il western quel filo di malinconico esistenzialismo proprio della solitudine dei suoi protagonisti.
Non dissimile il suo lavoro con altri due film, che restano capisaldi della sua poco prolifica filmografia, Two lane blacktop e Cockfighter. Il cinema di Hellman rarefatto nelle atmosfere e dilatato nei tempi, costituisce per queste ragioni oggetto di una riflessione più ampia, poiché è proprio in questa dilatazione temporale che si accresce il senso di un destino immutabile. Lo sanno bene i protagonisti di Strada a doppia corsia (Two lane blacktop) tra i quali, oltre a Warren Otaes nei panni dell’antagonista, troviamo il cantautore James Taylor e il batterista dei Beach Boys, Denis Wilson. Un viaggio, uno dei tanti spostamenti che costellano il cinema di Hellman, a bordo di una macchina truccata, una gara con un’altra vettura, ma una competizione che presto sfuma, per diventare il viaggio solo uno spostamento depauperato da ogni ragione, in cui la parola si azzera e valgono solo gli scambi quasi superflui di frasi con personaggi che sono solo figure nel paesaggio. Un road movie quasi statico, un anti Easy rider, un film che compendia l’incomunicabilità con il pessimismo, con un finale che non chiude il cerchio. Così anche Cockfighter, film sulla violenza cieca e dissennata, sulla sua contemplazione come componente essenziale della vita americana, tra spostamenti, combattimenti tra galli e amori non consumati, un viaggio dentro la vita vuota e silenziosa del suo protagonista, ancora una volta Warren Oates qui, quasi per un voto laico, privato della parola.
Avrebbe girato altri film tra i quali il recente Road to nowhere dal titolo quasi esemplare, che condensa magnificamente la sua poetica, che guardava come in un quadro di Schiele alla parte scarna dell’esistenza. Sono state queste le illuminazioni del cinema di Hellman, i vuoti esistenziali dentro i quali le sue storie hanno preso forma, gli straniamenti da una quotidianità che restava tremendamente reale, che si faceva scenario consueto, ma impreciso, quasi disturbante. Un cineasta anomalo, che ci ha lasciato un piccolo patrimonio sicuramente ancora da rivalutare, un regista che amava farsi definire “reazionario” perché amava il cinema classico, ma con il suo sguardo anche questa reazione ad ogni modernità diventa anomala e si trasforma in innovazione, pensiero, rielaborazione di quella incertezza del vivere e di quel trascendente che sappiamo che esiste e che solo le immagini limpide sanno cogliere e quelle di Monte Hellman sono state elette tra quelle.

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