Mortal Kombat, di Simon McQuoid

Un interessante esperimento transmediale tra cinema, gamification e nostalgia, talmente chiuso però nel suo orizzonte di ricerca da risultare fuori tempo massimo

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L’opening del Mortal Kombat di Simon McQuoid è una vera e propria dichiarazione programmatica.

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Il combattimento tra i ninja Bi-Han e Hanzo Hasahi è ben coreografato, violento, stimola domande, ma soprattutto ha per protagonisti due degli iconici personaggi del videogame cult di cui il film di McQuoid è nuovo adattamento. Mortal Kombat è tornato a casa, sembra voler dire il regista, dichiarando il suo desiderio di dare ai fan del videogame il film che forse hanno sempre sognato, sopratutto dopo l’appassionato ma imperfetto adattamento cinematografico del videogame firmato da Paul W.S. Anderson nel ’95. McQuoid, ha in effetti dalla sua il vantaggio di un contesto socioculturale in cui a dominare è la fascinazione per il passato ed il confine tra media diversi come cinema e videogame è sempre più sottile e dunque non può non costruire il suo film a partire da queste due linee tensive. La storia di Cole, combattente di strada chiamato a contrastare, insieme ad altri guerrieri, le forze del male guidate dallo stregone Shang Tsung gioca dunque, tra citazionismo e prelievi, non soltanto con l’immaginario di partenza del videogame ma anche con il linguaggio di certo cinema anni ’90, da cui mutua gli elementi più avventurosi del racconto ma anche la gestione dei rapporti tra i personaggi. Mortal Kombat è però soprattutto il luogo in cui Simon McQuoid ripensa con lungimiranza l’adattamento di un videogioco al cinema. Mortal Kombat non si vergogna infatti mai della sua derivazione videoludica, anzi abbraccia certi tratti di quella sintassi nella sua dimensione formale. Il film si muove dunque tra relitti videoludici del passato e le innovazioni del presente, tra sequenze di raccordo che ricordano i filmati in Full Motion Video dei vecchi videogame ed una narrazione che mette l’accento sull’upgrade, sulla scoperta di abilità nascoste sull’acquisire esperienza come in un gioco di ruolo per console.

Non stupisce, tra l’altro, che il nucleo del film sia proprio il combattimento uno contro uno, grado zero dello stesso Mortal Kombat. L’esile storyline del film è in effetti solo un pretesto attraverso cui McQuoid esplora le potenzialità del confronto corpo a corpo, ne studia le mutazioni a contatto con il cinema, ripensa le scenografie come i ring del videogioco, si diverte a sfruttarne la verticalità e la tridimensionalità.

Mortal Kombat

Apparentemente McQuoid ha ragione: il film è infatti un action essenziale e privo di eccessivi cali di ritmo, che tra l’altro riesce a usare le sue influenze per mascherare una CGI non particolarmente ispirata e una debole scrittura dei personaggi.

Sulla lunga distanza, tuttavia, Mortal Kombat soffra il suo approccio integralista, tra nostalgia ed ossequio verso il fandom. Il film di McQuoid non riesce infatti mai a risultare davvero memorabile. Non offre personaggi a cui affezionarsi, non crea un ambizioso mondo narrativo, piuttosto ripiega su una serie di malfermi input che suggeriscono il desiderio di sviluppare il racconto in futuro senza però preparare adeguatamente la strada attraverso la narrazione.

Isolato nella sua comfort zone, il film è un’affascinante esperimento linguistico che tuttavia non riesce ad affrancarsi mai davvero dalla sua natura di appassionato progetto laboratoriale, a camminare sulle sue gambe, a essere parte di un presente fatto di narrazioni complesse e franchise o anche solo a risultare d’impatto per un pubblico diverso dagli accaniti appassionati del videogame.

Titolo originale: id.
Regia: Simon McQuoid
Interpreti: Lewis Tan, Jessica McNamee, Josh Lawson, Joe Taslim, Laura Brent, Hiroyuki Sanada
Distribuzione: Warner Bros. 
Durata: 110′
Origine: USA, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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