Mother Lode, di Matteo Tortone
Un film dell’orrore con tanto di evocazione diabolica e discesa agli inferi delle miniere di La Rinconada. Tortone gira in un bianco e nero straordinario. Settimana della Critica a #Venezia78
Jorge è un ragazzo cresciuto nella periferia di Lima, la capitale del Perù. Un ambiente degradato, che tra baraccopoli e una rete viaria inesistente, condanna a esistenze prive di scopo e ambizioni. Il ragazzo, cosciente della sua condizione, tenta un “salto di qualità” cercando fortuna come minatore nelle Ande. Il luogo da raggiungere è La Rinconada, una città divenuta famosa per le grandi quantità di oro.
Matteo Tortone è un giovane documentarista attento a raccontare i drammatici spaccati sociali delle zone più povere del mondo. Mother Lode, presentato in concorso alla Settimana Internazionale della Critica 2021, non fa differenza. La storia di Jorge si inserisce in un contesto da sogno “americano”, ma che rimane in potenza e costantemente alle prese con una realtà infinitamente distante dal rispetto dei diritti umani dei minatori e degli operai.
Le storie di fortuna e prestigio che si sentono su queste miniere assumono la forma del Diavolo, una figura metaforica più volte citata da Jorge nelle sue lunghe pause di riflessione che la voce narrante condivide con gli spettatori. Il Diavolo è il denaro, una creatura demoniaca che promette tanto ma che al tempo stesso svela un sistema sociale che nega presunte rivincite e ascese sociali. Jorge non è un caso isolato, ma si tratta di un affresco costruito da tanti individui che condividono il medesimo e drammatico destino di sfruttamento. La quotidianità lavorativa è scandita da momenti di estraneazione. Con il passare delle giornate la partecipazione lavorativa viene meno lasciando spazio alla rassegnazione scaturita dalle condizioni infernali e potenzialmente mortali che gli operai sono costretti ad affrontare nelle miniere. Come sottolineato da una delle sequenze di apertura del film, l’alienazione che comporta una simile situazione degrada i lavoratori in uno stato in cui anche le loro identità e i loro nomi scompaiono nelle profondità delle miniere. Gli operai vengono strumentalizzati fino a diventare semplici pupazzi utili a fornire manodopera.
Straordinario il comparto fotografico di Patrick Tresh, che coadiuva le precedenti esperienze del regista da direttore della fotografia, applicando un bianco e nero che accentua l’inquietudine e la claustrofobia delle miniere e in un certo senso manifesta lo stato d’animo sempre più opaco di questi lavoratori. La dichiarazione d’intenti finale, che attraverso il montaggio riesce a legare il folklore cittadino con l’estrazione dei corpi di minatori deceduti, avvicina Mother Lode a un film dell’orrore. Un orrore reale e tangibile.