MOVIEGAMES – Il motore del terrore

L'avevamo detto a suo tempo: "Silent Hill 3 è il miglior videogioco horror". Ora arriva, dedicato alla serie, il libro di Bernard Perron a confermare che tale serie è riuscita, grazie alle proprie peculiarità, a superare anche quelle che pure hanno inaugurato il genere del survival horror. Ma attenzione: nuovi pretendenti sono già in campo.

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 Pubblicato nella collezione Videoludica. Game culture di Costa & Nolan diretta da Matteo Bittanti, Silent Hill. Il motore del terrore (158 p., € 14,60) è scritto da Bernard Perron, docente di filmologia presso il dipartimento di Storia dell'arte e studi cinematografici dell'Università di Montreal in Canada. Questo libro è assai interessante non solo per gli appassionati di videogiochi ma anche per quelli di cinema perché, pur non trattando esplicitamente il rapporto cinema-videogioco e non avendo fatto in tempo a prendere in considerazione la trasposizione cinematografica di Christophe Gans, è assai più esplicito e ficcante su tale tema di quanto non accada ad esempio in Videogiochi e cinema di Federica Grigoletto (Clueb, 128 p., € 14) che pure lo ha come centrale. Quest'ultimo infatti si riduce ad un'esposizione della vulgata dei "game studies": cinema e videogiochi sono generi incompatibili perché il videogioco è imperniato non sulla narrazione ma sulla interazione, perché operano un diverso tipo di identificazione coi personaggi, perché la gestione del tempo è duplice nel primo (tempo del narrato e tempo della narrazione) e diretto nel secondo, perché per il cinema è fondamentale la tecnica del montaggio che è invece impossibile a livello videoludico. Non vogliamo qui smontare uno ad uno questi falsi dogmi teoretici anche se sarebbe almeno parzialmente possibile (e del resto in parte già fatto in questa rubrica e lo si continuerà a fare quando ce ne sarà l'occasione). Del resto il libro della Grigoletto non è per questo pessimo, anzi ha il merito di riportare con estrema chiarezza il punto degli studi in merito. E tuttavia il libro di Perron, pur essendo estremamente più specifico – è un'analisi di soli 3 titoli: Silent Hill 1, 2 e 3, appunto – rivela come, almeno per la serie considerata, questi dogmi siano fallaci e come Silent Hill si riveli in grado di narrare, di gestire in maniera efficace l'identificazione con i protagonisti e di gestire sapientemente la messa in scena al fine di terrorizzare il giocatore (cfr.: la recensione di Silent Hill 3 apparsa in questa rubrica).

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«Il cuore di un gioco d'avventura è sempre una storia […] In effetti c'è una trama segreta dietro Silent Hill. Per conquistare il giocatore, per controllare l'ordine e il ritmo delle sue scoperte, i programmatori hanno sfruttato la struttura classica del gioco d'avventura» (p. 43). Il punto è che Silent Hill è appassionante non solo perché ci consente di controllare un personaggio che deve combattere contro qualcosa (alieni, mostri, delinquenti, ecc.) ma perché c'è un personaggio che potremmo essere noi stessi calati in un ambiente d'incubo, a cui accadono cose terrorizzanti mentre cerca disperatamente di scoprire cose vitali per la sua esistenza (ritrovare la figlia nel primo episodio, la moglie nel secondo, la propria vera identità nel terzo). Ovvero narrazione (la ricerca), identificazione (un personaggio che potrebbe essere noi stessi), messa in scena (calato in un ambiente d'incubo). Chiaramente un certo grado di identificazione ci deve essere in molti giochi e la messa in scena c'è in tutti (anche con Tetris si può parlare di una messa in scena esistendo almeno una cornice rettangolare in cui cadono i tetramini ed una finestrella di "preview" dove possiamo monitorare quale specifica forma sarà la prossima a cadere): significativamente però qui il grado di identificazione e di messa in scena sono portati al loro livello più elevato. Da una parte infatti il personaggio impersonato non è un guerriero spaziale o medievale, non è un mafioso, un agente di qualche addestratissima forza speciale, un qualche tipo di animale o di oggetto antropomorfizzato, ma piuttosto è volutamente il più possibile un ritratto dell'uomo e della donna qualunque con capacità ed interessi che qualunque uomo o donna possono avere. Per questo se corrono per un certo periodo si stancano ed il loro respiro si fa affannoso, per questo non si sanno arrampicare sui muri e non sono in grado di utilizzare sofisticate tecniche "stealth", per questo la loro mira con le armi da fuoco e la loro capacità di combattimento non sarà eccezionale. Dall'altro lato della messa in scena non è curato tanto il realismo grafico, il più o meno alto tasso d'interattività (finestre che si rompono, oggetti che si possono utilizzare) quanto la capacità d'indurre nel protagonista – e di conseguenza nel giocatore – un elevato stato d'ansia e di provocare non semplicemente l'orrore (i mostri che sbucano dal nulla facendoci sobbalzare sulla sedia ad esempio in Resident Evil) quanto il terrore, una condizione in cui non è un elemento specifico a spaventarci ma è tutto il complesso della situazione a suscitare angoscia. Da notare che contro un elemento specifico, per quanto pauroso, è più semplice avere reazioni positive (evitarlo, combatterlo) ma, quando è tutto il contesto ad esserci ostile, l'impressione è che ci sia impossibile fare alcunché e che l'unica strada percorribile sia quella della fuga.

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Considerando a posteriori il rapporto tra la serie videoludica ed il film di Gans possiamo notare come questi elementi abbiano fatto optare il regista per mandare la protagonista all'esplorazione della cittadina infernale praticamente priva di qualunque arma per la maggior parte del film. Questo perché l'uccisione dei mostri – tranne i boss – è quasi sempre non necessaria ed anzi, se le inquadrature sono tipiche del survival horror, ovvero imitano quelle cinematografiche per esaltare la drammaticità ma fatalmente spesso finiscono per nascondere i nemici e per offrire un pessimo punto di vista durante i combattimenti – abbiamo in Silent Hill a disposizione una radio che ci avverte con scariche statiche dell'avvicinarsi di un mostro con la possibilità quindi di evitarlo. Anche questo elemento è stato molto appropriatamente utilizzato da Gans in "negativo", ovvero non funzionando quando si avvicinano quelli che inizialmente la protagonista crede mostri ma che in realtà scopriremo trattarsi di esseri umani affiliati alla setta religiosa che domina la città. In questo senso la messa in scena (ma qui non è più Perron ma il sottoscritto a parlare) si trasforma in montaggio ovvero in una sorta di montaggio preventivo tipo quello ad esempio a cui assistiamo guardando Nodo alla gola di Alfred Hitchcock. Come Hitchcock aveva pensato ad un film senza tagli così in un videogioco – ed in maniera estremamente lampante e perfezionata in Silent Hill – quello che è il montaggio e che in un film avviene solitamente dopo le riprese manipolando fisicamente la pellicola, nel videogioco deve avvenire prima, in fase di stesura dello script, dove si deciderà in che modo fare avanzare nel gioco il protagonista, dove inserire i video non interattivi, quali elementi utilizzare per attrarre l'attenzione del giocatore. Un altro esempio eccezionale di questa sorta di montaggio preventivo è la figura del G-Man che possiamo vedere in varie occasioni durante le normali sessioni di gioco di Half-Life: lo vediamo passare e sappiamo che è un elemento fondamentale per svelare il mistero oggetto dell'azione ma contemporaneamente egli è sempre al di là della nostra portata, beffardamente anche al di là dei proiettili che possiamo sparargli contro se non altro per disperazione.

Ma Silent Hill non è l'unico gioco horror ed anzi, come già abbiamo visto nella precedente "puntata" di Moviegames, altri titoli si affannano a contendergli lo scettro e, per complessità narrativa e sapiente messa in scena, sicuramente il Forbidden Siren 2 di cui abbiamo parlato in quell'occasione non è meno incisivo. Ma ci preme qui parlare di un altro gioco con peculiarità diverse e sostanzialmente sorprendenti. Si tratta di Call of Chtulhu: Dark corners of the Earth (Bethesda Softworks, distribuito in Italia da Ubisoft per la versione Pc e da Take 2 per quella Xbox). Come si evince facilmente dal titolo, il gioco si rifà esplicitamente alle atmosfere orrorifiche lovecraftiane ed infatti il protagonista, Jack Walters, è un investigatore che già in passato ha avuto a che fare con gli Antichi e come conseguenza è impazzito fino a tentare il suicidio trascorrendo lunghi anni in un ospedale psichiatrico. Uscito dal quale viene coinvolto in un caso di una persona scomparsa a Innsmouth. Ma ovviamente la cittadina di pescatori ottusi si rivelerà una colossale trappola, strettamente legata al caso che l'aveva portato alla pazzia: i suoi abitanti sono infatti adepti del culto di Dagon, uno degli Antichi (nel gioco "Deep One") con cui Jack s'è già scontrato. Mostri misteriosi s'aggirano per le strade, per i tetti, per le cantine e l'apparenza di sonnolenta banalità verrà presto infranta quando Jack vedrà la creatura in cui s'è trasformata una madre fare a pezzi la figlia mentre il padre, trascinato via dalla polizia, sarà rassegnato a diventare capro espiatorio della violenza. A tali viste la mente di Jack vacilla e la follia torna a far capolino. Cosa c'è di originale in tutto ciò? Il fatto che CoC non è né un survival horror né un'avventura, come ci si potrebbe aspettare: tutta la vicenda è vissuta infatti in prima persona attraverso gli occhi di Jack. E non si tratta neppure di un'avventura alla Myst con schermate sì in prima persona e 3D ma fisse con la necessità di uno stacco per passare da una location ad un'altra disponibile. Siamo invece di fronte ad un vero e proprio FPS con completa libertà di movimenti. Senonché l'attività di "shooter" non è preponderante come di solito nel genere (anzi, per un buon tratto di gioco non possediamo neppure un arma) ma è controbilanciata dall'avventura sia attraverso la risoluzione di enigmi (generalmente il ritrovamento della chiave giusta per aprire una determinata porta), sia attraverso la ricerca dell'appropriata sequenza di azioni da compiere per sopravvivere all'attacco degli uomini-pesce seguaci dell'Antico Dagon. Il tutto senza dimenticare la follia di Jack che, se torna a far capolino nelle situazioni in cui sembra non avere via d'uscita o dopo essere stato gravemente ferito, impedisce letteralmente al giocatore di controllare il protagonista in preda a vertigini e tremori. In più graficamente la riproposizione di una cittadina americana dei primi anni del '900 in tutto il suo più ricercato squallore è tremendamente efficace nel metterci a disagio. In conclusione un modo estremamente originale ed efficace di proporre una storia già ampiamente collaudata. Anche qui il senso di oppressione e d'angoscia vengono ancor prima dall'atmosfera e dall'ambientazione piuttosto che dai mostri. La voglia è quella di riprendere l'autobus che ci ha portati lì e di tornarcene a casa, ma d'altra parte è per farci spaventare che abbiamo acquistato CoC e CoC riesce non solo a spaventarci ma anche a terrorizzarci. Applausi dunque!

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