Mowgli – Il figlio della giungla, di Andy Serkis

Il divenire-animale è la via da imboccare per mettere in questione le distanze, immagine di ibridazione che si fa strumento di emancipazione per liberare le possibilità del corpo. Su Netflix

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Le leggi della giungla sono leggi che parlano di onore, quello che Bagheera insegna a Mowgli quando, occhi negli occhi, non lascia sprofondare nella solitudine della dipartita l’anima della sua preda. Leggi che parlano, ovviamente, della sacralità della caccia, un rito che non deve mai esser profanato dalla gratuità del gesto, come invece fa il cacciatore bianco di Matthew Rhys, con la sua collezione di trofei sprezzante della natura, perché la caccia è un diritto, non uno svago. Quelle della giungla sono leggi antiche come lo sguardo di Kaa, che parlano di sopravvivenza e raccontano come tutti, la specie non ha alcuna importanza, siano cacciatori e allo stesso tempo prede.

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mowgli - il figlio della giunglaNo, le leggi della giungla di Andy Serkis non hanno proprio nulla delle atmosfere spensierate della Disney, quelle che avevano deviato vistosamente dalla narrazione di Rudyard Kipling in modo da far sì che, non solo nel classico d’animazione, ma anche nella versione live action firmata da Jon Favreau, poche briciole bastassero a far dimenticare i propri malanni.
Mowgli – Il figlio della giungla, nato sotto l’egida della Warner e, poi scalzato dalle sale proprio dall’uscita del film di Favreau, per esser infine comprato da Netflix, non arretra neanche di passo di fronte all’immagine selvaggia e brutale dei paesaggi descritti da Kipling. Il film di Serkis si porta addosso tutto il puzzo della putrefazione delle carcasse lasciate a marcire nella giungla, il ronzio accecante delle mosche sulla carne in decomposizione, la violenza che tinge di rosso il verde del paesaggio. La giungla di Andy Serkis è una geografia cupa che non perdona nessuna debolezza, lo sa bene Akela, che non ammette distrazione alcuna, pena l’annientamento, come del resto raccontano le storie nascoste nelle cicatrici profonde che ogni personaggio del film si porta addosso, a partire dal volto segnato dalla vita dell’orso Baloo, l’addestratore e la guida dei giovani lupi inabitato dallo stesso Serkis, che insegna a Mowgli, come divenire lupo superando le limitazioni del proprio corpo.

mowgli-legend-of-the-jungleNon è un caso che Andy Serkis, pioniere e maestro indiscusso della motion capture, che ha fatto della sua carriera una riflessione sullo scardinamento del concetto di assenza e sul corpo come soglia da varcare – “essere in grado di superare le limitazioni imposte da aspetto fisico, altezza, dimensioni del corpo umano, sesso, colore della pelle” – ritagli per se stesso proprio il ruolo di Baloo. L’orso di Mowgli – Il figlio della giungla è il personaggio che mostra al piccolo protagonista la strada del divenire-animale, perché il divenire-animale, concetto alla base del discorso deleuziano, è la via da imboccare per poter mettere in questione le distanze, è l’immagine di un’ibridazione, come quella di Cesare nell’ultima trilogia de Il pianeta delle scimmie, che nel suo movimento di sottrazione e decostruzione dell’identità si fa strumento di emancipazione attraverso cui liberare le possibilità del corpo. Si tratta della stessa riflessione sul post-umano iniziata da Serkis già a partire dalla contaminazione tecnologica inaugurata da corpo digitale di Gollum ne Il Signore degli Anelli, ovvero portare il corpo al limite, fino al ciglio della sua sparizione, in modo da permetterne lo sconfinamento e così affermare una nuova presenza fatta di pura intensità di affetti. È solo mettendo in discussione la fissità della sua identità che Mowgli, il ragazzo che, infine, scopre di non essere lupo ma neanche uomo, sconfigge Shere Kahn e impara a farsi anomalia capace, nella sua ibridazione, di arricchire la specie e di salvare la giungla dalla sua dissoluzione.

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