My America, di Barbara Cupisti

Un componimento di esistenze ai margini narrate senza retorica, con una regia si mantiene discreta, lasciando che siano i luoghi e i suoi protagonisti a raccontarsi. Fuori concorso/doc al #TFF38

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Povertà, violenza, disagio sociale. Il documentario di Barbara Cupisti (Vietato sognare) fornisce un’istantanea del tessuto sociale statunitense lontana anni luce dall’immaginario comune dell’American Dream, consolidato dalla parzialità delle informazioni trasmesse dai media nazionali ed internazionali. Da sempre vista come terra di opportunità, benessere e democrazia, nella realtà dei fatti l’America vive quotidianamente un’innumerevole quantità di conflitti interni che non collimano coi principi di libertà, uguaglianza e prosperità che la Costituzione americana dovrebbe garantire ai propri cittadini.

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Una situazione di profondo degrado aggravatasi negli ultimi anni dalla presidenza Trump e dalla mancanza di politiche sociali ed efficaci interventi di risanamento. La regista, che dal 2014 vive negli States, sceglie di raccontare la società americana attraverso l’operato di persone comuni che mettono mezzi, competenze e impegno civile a disposizione dei più bisognosi, laddove le istituzioni sono del tutto assenti. I tre capitoli in cui si articola il documentario trattano della violenza armata legata alle stragi nelle high school, degli homeless nelle grandi metropoli e delle politiche anti migratorie.

La regia si mantiene discreta, lasciando che siano i luoghi e i suoi protagonisti a raccontarsi. Come Carlill Pittman, diciassettenne fondatore dell’associazione Good Kids Mad City, che si occupa di assicurare ai ragazzi di Chicago strumenti utili, come le manovre di primo soccorso, per contrastare l’alto tasso di mortalità giovanile causato da sparatorie e ferimenti, in una città in cui un’ambulanza impiega venticinque minuti a rispondere ad una chiamata d’emergenza. O la madre single che racconta la sua esperienza nello Skid Row di Los Angeles, uno dei più grandi agglomerati di senzatetto degli Stati Uniti, in una città che ne conta quasi sessantamila, la cui sopravvivenza è affidata alle cure dei volontari che ogni notte si preoccupano di fornire acqua, vestiti e pasti caldi. O ancora, i Samaritani di Nogales che sul confine tra Messico e Stati Uniti aiutano i migranti a compilare i moduli per richiedere asilo.

Il risultato è un componimento di esistenze ai margini narrate senza retorica, che trovano la loro celebrazione in randomiche azioni teatrali, poesie di autori anonimi e cimiteri senza corpi. Un racconto che parte dal basso, da quello spirito di solidarietà che si rivela determinante nel combattere le ingiustizie sociali causate da un sistema imponente, eppure sordo alle richieste dei più fragili e troppo avvezzo a dimenticare e nascondere la miseria di cui è responsabile.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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