My Brother, The Android and Me, di Junji Sakamoto

Il regista giapponese ritorna qui alla natura viscerale del suo primo cinema, dando vita ad un racconto caotico, a volte impreciso, ma sempre intenso. In Concorso all’Asian Film Festival di Roma

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Non c’è forse rapporto più naturale, organico e essenziale di quello “artificiale” tra uomo e macchina. Sin dall’alba dei tempi, l’essere umano ha fatto uso degli strumenti, dall’aratro al carro fino ai dispositivi moderni, non solo per favorire il progresso societario, ma (soprattutto) per soprassedere alle sue stesse carenze. Lì dove le capacità umane non possono arrivare, per limiti biologici o banalmente esistenziali, ecco che interviene il macchinico, quasi a voler disinnescare le imperfezioni fisiche dell’individuo. E se il cinema giapponese ne ha storicamente declinato gli esiti nei termini di un potenziamento organico dell’uomo (Tetsuo) o di una fantasia di auto-affermazione (Akira), in questo My Brother, The Android and Me tutto converge verso i discorsi identitari di Doppelganger. Dove il clone/macchina diventa riflesso e specchio della ricerca della propria integrità.

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Nel protagonista di My Brother, The Android and Me notiamo sin da subito questo (più che) ossessivo anelito ad un’idea di pienezza. Kaoru (Etsushi Toyokawa) è in tutti i sensi il ritratto del broken man: gode di un intelletto raffinato, ma non ha la capacità né la voglia di instaurare delle relazioni umane. Lo vediamo ritrarsi da ogni contatto emotivo, e allontanarsi dai suoi studenti non appena termina di scribacchiare delle formule matematiche sulla lavagna. Della sua condizione (umana, psichica, patologica) si sa poco o nulla, se non che soffra di regolari paralisi alla gamba sinistra che ne accentuano la reclusività. Ma se nella società “esterna” non trova modo di esprimersi, è negli spazi domestici che insegue la sua smania di integrità, arrivando addirittura a costruire un automa a sua immagine e somiglianza. Così da percepirsi finalmente come intero.

Dove My Brother, The Android and Me eccelle è proprio nella costruzione del rapporto uomo-macchina, che assume nel corso del racconto una valenza propriamente materica. Tra sforzi, sofferenze e struggimenti, qui Sakamoto è abile a comunicare la propensione “biologica” del protagonista a ricercare un legame fisico con il clone meccanico, oggetto dei “sogni di pienezza” dell’uomo. Si arriva così alla materializzazione di una fantasia tanto ossessiva quanto rischiosa, che il regista suggerisce anche attraverso la soffocante messa in scena, disseminata di tracce o elementi figurativi – si pensi alle lugubri condizioni atmosferiche – che ne illuminano la forte condizione di fragilità mentale. Ormai sempre più condannata ad uno stato di frammentarietà.

I problemi di My Brother, The Android and Me, semmai, sono da individuare proprio nei modi in cui racconta l’origine traumatica del protagonista, con scene in flashback poco chiare e caotiche, che privano di spessore drammatico tutto il percorso narrativo dell’uomo. Un vero peccato. Perché nel volto di Kaoru ritroviamo tutta la visceralità del cinema di Sakamoto, dalle escrescenze rabbiose del pugile di Dotsuitarunen (1989), fino alle eruzioni emotive della giovane ragazza di Kao (2000). Contrappunti, questi, di un racconto che rifiuta di controllare i vari filoni del suo intreccio. Pur di lasciar correre a briglie sciolte l’emozione. Al di là degli scrosci di pioggia che continuano a tempestare, imperterriti, il mondo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.4
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Il voto dei lettori
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