Nanni Moretti. Il cinema come cura

Ecco il nuovo libro di Roberto Lasagna sul cinema di Nanni Moretti, uscito in occasione dell’arrivo nelle sale italiane di Tre Piani per Mimesis

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Giro, vedo gente, mi muovo, faccio delle cose

Roberto Lasagna, nel suo testo su Nanni Moretti Il cinema come cura (edito da Mimesis), prende come riferimento questo celebre aforisma di Ecce Bombo per delineare un percorso intestino alla filmografia morettiana che parte dall’autoanalisi autoriale, per rivolgersi alle coscienze degli spettatori stessi, spinti ad elaborare i turbamenti e le idiosincrasie che il filmmaker mette in scena, a fini catartici. Motivo per cui, secondo l’accademico, grazie ai film di Moretti diviene possibile “curarsi con il cinema, seguendo un autore che ci parla di insofferenze e di punti di vista sulle relazioni; un autore mai imparziale, che ci invita a mettere in discussione i nostri schemi mentali anche quando sembra volerci far soprattutto sorridere”. Il suo cinema, infatti, “ci dice di noi in molti modi, ridesta il nostro bisogno di reagire, di essere osservatori attivi del nostro tempo” esperito attraverso la visione ironica (e talvolta grottesca) dei fatti storici che costituiscono la nostra realtà.
Lasagna rilegge l’intera poetica morettiana alla luce dei personaggi che popolano i suoi mondi diegetici; dall’autarchico sessantottino Michele Apicella (vero alter-ego del regista di Brunico) al pontefice in crisi di Habemus Papam, passando per la maschera di Don Giulio in La Messa è finita, tutti personaggi che si pongono tra loro in posizione di continuità e si evolvono insieme alla progressiva maturazione della visione dell’autore. Non è causale, infatti, che Moretti “attingerà dalle opere precedenti per formulare un percorso di senso, fatto di rimandi interni, strappi ed evoluzioni, e di sonore prese in giro del proprio ambiente” che è poi il nostro ambiente, la dimensione socio-culturale nella quale tutti noi agiamo e viviamo.
Ai fini di una delineazione chiara del percorso cinematografico intrapreso da Moretti, Lasagna iscrive i cambiamenti della filmografia del regista in quattro periodi, ognuno dei quali rispecchia le evoluzioni esperite dai personaggi che si muovono all’interno di essi.

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La prima fase: Michele Apicella

Nei primi due lungometraggi di Moretti, Io sono un autarchico (1976) e Ecce Bombo (1978), come osserva l’accademico, la “cura spettatoriale” passa attraverso la presentazione del tragicomico personaggio di Michele Apicella il quale, uscendo quale “eterno sconfitto di una generazione che annaspa quasi senza averne piena coscienza” funge da sineddoche di un intero popolo, quello dei giovani progressisti italiani a cavallo tra gli anni 70′ e 80′, delusi fortemente da una classe dirigente che non li rappresenta, e calati in una condizione di sfasamento (tratto distintivo dei personaggi morettiani) dalla quale non riescono ad emergere. Soprattutto in Ecce Bombo, il disagio esistenziale di Michele (e, di conseguenza, quello di Moretti) è evidentemente percepibile da parte di uno spettatore che sia in grado di osservarne, dietro l’amarezza agrodolce del personaggio, la pungente alienazione. Perché “l’ironia magari non ci salverà del tutto, ma potrà aiutarci a salvaguardare quel distacco che lascerà spazio al disincanto e all’autocritica”.

Seconda fase: da Apicella a Don Giulio per ritornare verso sé stesso

Se nelle prime opere Michele Apicella si pone quale “indole del bastian contrario in lotta principalmente contro i luoghi comuni traghettati e rafforzati dai costumi del suo tempo”, nei film morettiani degli anni 80′ egli si dirige verso nuovi lidi, prima di cedere il volto ad una nuova maschera, quella di Don Giulio. Per Lasagna nella suddetta decade (inaugurata da Sogni d’oro, vera opera transitoria tra un periodo dell’analisi generazionale e politica e uno sguardo più elevato) l’alter-ego di Moretti si apre verso una dolorosa intimità osservabile prima in Bianca, poi in Palombella rossa, che ne decreta quell’incapacità di accettare il proprio senso di sfasamento (rispetto alla società) che è fonte dell’infelicità che lo attanaglia (medesimo discorso vale anche per il sacerdote di La messa è finita). La cura per lo spettatore/cittadino qui passa direttamente attraverso la condizione alienante di Apicella nella realtà socio-culturale del tempo, calato in una condizione di smarrimento che “arriva a fine decennio come il culmine di dolore di un percorso in cui i comunisti hanno visto svanire le loro speranze”.

Giù la maschera: da Apicella al volto di Moretti-regista

A partire da Caro diario (1993) il cognome materno Apicella non farà mai più ritorno in favore, negli anni 90′, della presentazione da parte di Moretti di sé stesso, la cui sensibilità filtra totalmente il mondo diegetico delle due opere cine-diaristiche. Per l’accademico l’uomo/regista Moretti, adesso, si mette in gioco, per dialogare apertamente sia con l’immaginario pasoliniano (l’idroscalo di Ostia in Caro Diario) sia con l’Italia degli anni Novanta (vittoria berlusconiana, titubanze della Sinistra in Aprile), sia con la dimensione emotiva personale (l’intimità struggente ne La stanza del figlio) sempre con la finalità di “avvicinarsi a quel rapporto generazionale tra lui e noi” servendosi dell’ausilio dell’ironia per parlare anche “della sua e della nostra vita psichica”.

Quarta fase: il passaggio del testimone a volti altri

Nell’ultimo quindicennio di carriera Moretti, mettendosi almeno parzialmente da parte, lascia spazio a personaggi altri, i quali si caricano dell’onere di catalizzare i discorsi filmici per gli spettatori, spingendoli alla conseguente elaborazione di quelle stesse idiosincrasie e tematiche. Così come delinea acutamente Lasagna, se ne Il Caimano la struttura meta-cinematografica di cui è protagonista Bruno Bonomo (Silvio Orlando) “riflette il ruolo del cinema nel rappresentare l’identità sociale di un paese” offrendone uno spaccato chiaro al cittadino italiano, la figura terapeutica del pontefice in crisi di Habemus Papam si offre ad una configurazione catartica. Attraverso il volto teso di Michel Piccoli, Moretti pone in essere “uno smarrimento del senso in questo particolare momento storico, soffermandosi sulle pretese di un potere vacuo”. Smarrimento che per il filmmaker assume delle note biografiche nella successiva opera, Mia madre, la cui dipartita materna richiama la lacerazione famigliare de La stanza del figlio.

Lasagna, allora, con il suo libro rintraccia, nella successione dei personaggi morettiani, un percorso in cui i loro deragliamenti sono sempre espressione dei disagi esistenziali di coloro che guardano le opere, attraverso cui è possibile giungere ad una loro risoluzione.

Nanni Moretti. Il cinema come cura
Roberto Lasagna
€ 14
pp. 137
Mimesis

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