NAPOLI FILM FESTIVAL 12 – Percorsi d'autore – Krysztof Kie?lowski
La dodicesima edizione del Festival di Napoli si è arricchita di una personale dedicata a Krysztof Kieslowski, il grande regista polacco che ci ha lasciato nel 1996. Il suo cinema è sempre stato sostenuto da una programmatica tensione teleologica verso una ricerca paziente e sfinente della verità. La sua laicità gli permetteva di guardare dentro l’uomo, in quell’universo sconfinato che è l’idea sotterranea che regge il suo cinema con un senso di fluvialità quotidiana e di misteriosa memoria di volti e situazioni
L’occasione di filmare è per me occasione per nascondermi nel luogo dove giro il film, per nascondermi dietro al personaggio… di cogliere la vita quando accade. … La realtà è bella da filmare, senza cadere in volgarità. … Io non faccio distinzione tra realtà e finzione. Per me contano le immagini che suscitano interesse in me e spero anche negli altri.
Corso Salani
Va dato merito al Festival di Napoli di avere ricordato, con dieci film, cinque cortometraggi e l’intero Decalogo, il cineasta polacco che ci ha lasciato nel 1996. Il merito si accresce per avere proiettato quattro film quasi sconosciuti del regista oltre che i cortometraggi del tutto invisibili che, per ragioni logistiche, chi scrive non ha potuto vedere.
“Non credo né alla bellezza, né alla missione, né all’'affascinante fugacità', né alla funzione sociale della mia professione. Non credo nemmeno che questa scatola, con la pellicola dentro, sopravviva e conservi qualcosa per qualcuno. Non credo a niente di tutto questo… Faccio dei film per registrare. Sono molto legato alla realtà, perché ciò che esiste è più intelligente e ricco della mia visione e di me stesso. La registrazione dell’esistenza mi basta… Cerco di esprimere la mia inquietudine attraverso quella di qualcun altro ma niente di più. È l’inquietudine e non l’amore, la speranza e tutto il resto che mi fa alzare al mattino. L’inquietudine racchiude in se sempre una domanda.”
Queste dichiarazioni, esplicitamente distaccate da qualsiasi supponenza autoriale, permettono un ingresso informato nell’universo di Kieslowski, regista polacco formatosi alla mitica scuola di Lód? dove, tra gli altri, si è formato anche Polanski.
Il cinema di Krysztof Kieslowski è sempre stato sostenuto da una programmatica tensione teleologica verso una ricerca paziente e perfino sfinente della verità dentro il perimetro del reale. Questa ricerca di estrema verità la ritroviamo, ad esempio, nell’incedere di sequenze ricorrenti come nell’immagine della anziana donna che tenta di inserire la bottiglia vuota nella campana del vetro. Una ricerca ossessiva della verità dentro ogni angolo della realtà che si compie attraverso quel cinema di “registrazione” che il regista sosteneva di realizzare.
Forse per queste ragioni l’autore polacco, ha sempre lavorato raccontando le proprie storie dall’interno, lasciando l’impressone che si trattasse di una narrazione diaristica. Non a caso un genio come Kubrick ebbe a dire: “Krzysztof Kie?lowski e Krzysztof Piesiewicz hanno la rarissima capacità di drammatizzare le loro idee piuttosto che raccontarle solamente. Esemplificando i concetti attraverso l'azione drammatica della storia essi acquisiscono il potere aggiuntivo di permettere al pubblico di scoprire quello che sta realmente accadendo piuttosto che semplicemente raccontarglielo.”
Eppure le dichiarazioni di Kieslowski farebbero pensare ad un cinema che mette una distanza tra lo spettatore e la narrazione, lo sviluppo diegetico degli avvenimenti e soprattutto i personaggi. Non è mai avvenuto, riteniamo, che uno spettatore si sia sentito lontano dall’animo dai protagonisti e dalle storie di Kieslowski. I suoi film sono stati sempre popolati da un profondo senso di umanità, quell’umanità che si ritrova nei piccoli gesti, nella spontaneità irrazionale e propria della natura umana che confina con l’inopportuno, a volte il quasi disdicevole, ma che illumina della luce del reale il composto cinema del cineasta polacco.
Un breve sequenza su tutte, siamo nella parte finale di Il cineamatore (1979) la storia di Filip, un Jerzy Stuhr quasi irriconoscibile, epilogo della sua storia d’amore con la moglie Irka e un litigio che suggella la separazione, lei volta le spalle e lui ormai in preda alla bruciante ossessione della ripresa cinematografica la inquadra con tre dita come un obiettivo perché la sua (inopportuna) necessità è quella di guardare il mondo attraverso la lente deformante del suo cinema.
È proprio sui quattro film, più sconosciuti, che crediamo, vada puntata l’attenzione e che sicuramente hanno suscitato l’interesse maggiore attorno a questa nutrita retrospettiva.
In ordine cronologico La tranquillià (Spokoj – 1976), Il cineamatore (Amator – 1979), Il caso (Przypadek – 1981) e Senza fine (Bez konca – 1984). Quattro esempi di cinema intensamente legati alle precedenti dichiarazioni di intenti, o forse di non intenti. Talmente costruiti attorno ad un concetto di realtà, da risultare connaturati e inscindibili dall’immanenza e dall’incombenza dell’evento. La presa profonda che la cinepresa di Kieslowski ha sul definirsi progressivo della realtà che osserva determina l’idea, del tutto personale e assai opinabile, che il suo cinema non avesse bisogno di ciak successivi nelle riprese e che fosse un cinema talmente poco costruito in fase di scrittura, da potere essere girato in reale successione con un effetto finale di grande naturalezza e spontaneità accompagnato da una straordinaria fluidità narrativa. L’opera di Kieslowski sembra consegnare un universo cinematografico in cui i film appartengono più all’opera intelligente di un acuto operatore che si è sempre fatto guidare nella regia e nella messa in scena da una trascendente materialità in divenire e il cui occhio, quindi, servisse solo a mettere una specie di ordine nel caos. Ma è solo un ordine apparente tanto è forte il suo esplicito intervento sulla realtà che comunque, a sua volta, sembra non potere prescindere dal cinema.
Questa stretta correlazione tra componenti del reale e invenzione cinematografica acquista forse la sua espressione migliore nel fluviale corpus di Decalogo nel quale Kieslowski sembra trovare definitivamente la strada per lavorare con la necessaria continuità attorno a questa originale contaminazione tra cinema e quotidiano divenire, tra realtà e sue molteplici possibilità. Il caso è forse uno dei primi film in cui la sperimentazione diventa più diretta e l’ingerenza nel reale più strutturalmente concepita. Tre sono le possibilità offerte a Witek l’accadere o meno di un banale incidente influenzano la sua vita futura, tanto da divenire in un’occasione un militante del partito di governo, oppure un fervente religioso oppositore o ancora uno scienziato completamente disinteressato alla politica, ma attivo nel sociale.
È ancora la pura casualità, qui espressa in forma chiaramente narrativa, a trasformare il Filip di Il cineamatore in un ossessivo osservatore del mondo attraverso la sua cinepresa. Dovrà accorgersi che il cinema non è neutro, che la ripresa della realtà non è mai indifferente e così diventa fastidioso filmare gli ispettori dell’azienda che escono dal bagno. Kieslowski su questo film ebbe a dire: [Il personaggio] “si rende conto che non basta puntare la cinepresa sul reale per filmare la verità, che la verità ha molti volti, che tutto dipende dal punto di vista da cui si guarda, che la verità personale non sempre coincide con la verità pubblica.” Un’idea pirandelliana della verità con la consapevolezza della possibile mediazione del cinema quale strumento interpretativo e non solo quale dispositivo di messa in scena.
In questa prospettiva Il cineamatore, benché precedente sembra avere più legami con il cinema futuro del regista, rispetto a La tranquillità dove Stuhr, che ha collaborato alla stesura dei dialoghi, è Antok Gralak che da ex detenuto desidera solo un lavoro e una vita tranquilla con il televisore e il divano. Non riuscirà ad ottenere nulla di tutto ciò. Un film strutturato attorno ad un’idea più normalizzata della ripresa della quotidiana consistenza e che sembra costituire un laboratorio di idee per gli sviluppi futuri del suo cinema. Nel 1984 vi è una svolta nel lavoro di Kieslowski, l’incontro artistico con l’avvocato Krzysztof Piesiewicz. La loro prima esperienza è Senza fine che è forse il film più metafisico del regista che non abbandona mai, comunque, neppure in questa occasione la sua vena fortemente terrena. Non sarà l’unico caso in effetti in cui il cinema di Kieslowski esplora le possibilità di un rapporto metafisico dei suoi personaggi. Decalogo offre proprio questo continuo dialogo, ma tutto sotto una determinazione molto laica che non intacca la straordinaria capacità di intrecciare il senso di una moralità religiosa, con un’alta espressione della pietà umana. Piccolo film sull’uccidere che, in versione televisiva e ridotta diventerà Decalogo 5 è forse l’esempio più lampante di questa difficile sintesi.
Senza fine sembra una prova generale di questa sperimentazione, nel triste epilogo di un amore incompreso e di una distanza incolmabile tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Nel suo successivo cinema il regista sarà sempre più interessato alla drammatizzazione all’interno di una probabilistica casualità, laddove il caso questa volta scompone il quotidiano che però si arricchisce di nuovi e più collettivi concetti. È vero che è sempre la banale coincidenza del quotidiano nel finale di Film rosso che ci fa incontrare i personaggi dei due film precedenti scampati al naufragio o ancora che Wladyslaw Kowalsky interpreti lo stesso personaggio in Decalogo 7 e in La doppia vita di Veronica, ma è anche vero che con la trilogia Film blu, Film bianco e Film rosso la cinematografia di Kieslowski aveva imboccato una strada che dalla elaborazione teorica, espressa in forma quotidiana lo stava portando ad elaborare una quotidianità sempre più raffinata in cui l’argomento concettuale si arricchiva di nuovi significati. Sarebbe, infatti riduttivo ritenere che la libertà, l’uguaglianza e la fraternità, i tre temi degli ultimi lavori dell’autore possano ridursi al solo concetto politico. La sua profonda laicità gli permetteva di guardare dentro l’uomo in quell’universo sconfinato che è l’idea sotterranea che regge il suo cinema con un senso di fluvialità quotidiana e di misteriosa memoria di volti e situazioni, quelle stesse che, ci fa piacere ricordare, si ritrovano dentro lo sguardo e dentro il cinema di Corso Salani.