NAPOLIFILMFESTIVAL 10 – "La Disparue de Deauville" di Sophie Marceau

Al suo secondo lungometraggio, l’attrice francese sceglie di muoversi sul terreno del noir. Costruisce un plot che appare un pretesto per una riflessione teorica sull’immagine e sul cinema. Riesce a farci entrare per brevi istanti in un limbo nebbioso in cui i ricordi si confondono con i desideri e i desideri stessi crescono sino a farsi incubi, persecuzioni. Ma siamo riportati fuori sempre troppo presto. Le immagini ci concedono tutto e subito e si abbandonano all’estetismo, alla contemplazione della propria bellezza

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La Disparue de DeauvillePer il suo secondo lungometraggio, Sophie Marceau sceglie di muoversi sul terreno del noir. Una persona scomparsa, un poliziotto in crisi, una dark lady pericolosamente attraente, fantasmi del passato che tornano in vita. Come da manuale. In più, echi di Clouzot e Chabrol, quello sguardo tutto francese su una provincia profondamente malata, in cui i rapporti umani sono viziati da una patologia insanabile. Ne La Disparue de Deauville non si ha più la chiara consapevolezza dei legami. Chi è padre, chi è madre, chi è figlio, chi è vivo, chi è morto? Come si distingue il vero dal falso? E’ tutta una questione di percezione. In effetti, il plot thriller appare ben presto solo un pretesto per una riflessione teorica sulle modalità della percezione e sull’immagine. La Marceau, all’inizio sembra ossessionata dalla necessità di dissipare quell’ambiguità della soggettiva, sempre prossima, contigua all’oggettiva, per cui lavora sugli effetti ottici, sposando a pieno il solo punto di vista di Jacques Renard (il redivivo Christophe Lambert). Le sinapsi neuroniche non lavorano a regime, la comunicazione tra occhio, cervello e cuore è sfalsata. Siamo nell’incubo di un poliziotto folle, che per ristabilire la verità dei fatti deve per forza di cose riconquistare la lucidità dello sguardo. E quindi, l’oggettività. Come se fosse possibile conoscere gli esatti contorni del mondo. O meglio, riconoscere, perché qui l’immagine si fa ben presto memoria, tela di frammenti sparsi da ricomporre e rimontare. Nella vecchia pellicola c’è sempre un salto, una sequenza persa. O forse addirittura si tratta di fotogrammi mai girati, di cui crediamo di serbare un segreto ricordo, perché abbiamo irrimediabilmente perso la profondità della prospettiva. Il passato è sempre manchevole, perché è la vita stessa che viene necessariamente a mancare. Il dolore è vivo e presente, ma è dato da un’assenza, da una microfrattura dell’anima, che si riflette nella carni e nei ricordi. Alcuni dicono che occorre dimenticare per superare il trauma del lutto. Altri che occorre ricordare per comprendere la necessità dell’accaduto. In realtà c’è uno spazio ambiguo, un regno d’ombre in cui i ricordi si confondono con i desideri e in cui gli stessi desideri si gonfiano fino a diventare incubi, persecuzioni. Per questo è possibile confondere Lucie e Victoria. La Marceau ci fa entrare per brevi attimi in un limbo nebbioso, in quella stanza 401, in cui ogni foto è uno spettro e in cui quello che vediamo è indistinguibile. Ci fa entrare nel vero regno del noir, ma ci riporta sempre fuori troppo presto. Come se volesse chiudere il cerchio e serrare le fila del ragionamento, ci mostra la telecamera e gli occhi ansiosi di un vecchio voyeur, che concentra il suo sguardo e il suo desiderio sulla donna/star. Quel voyeur siamo noi, ma il nostro desiderio non viene mai messo in moto, perché ci viene concesso tutto e subito. Le immagini son troppo indulgenti, si concedono all’estetismo e si abbandonano alla contemplazione della propria bellezza. Restiamo fuori a contemplare un’algida perfezione, con il rimpianto di non incontrare più gli splendidi occhi di Sophie.   

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