Nasty, di Tudor Giurgiu, Tudor D. Popescu e Cristian Pascariu
Ripercorre la carriera di uno dei tennisti più controversi di sempre, creando una forte empatia tra il protagonista e il pubblico. Uno dei migliori ritratti sportivi recenti. RoFF19. Best of 2024.

Oggi tocca a Jannik Sinner, prima di lui ce ne sono stati tanti altri: Borg, McEnroe, Wilander, Sampras, Federer, Nadal. 29 in totale. Ma il primo tennista n.1 al mondo è stato Ilie Năstase. Il suo nome era infatti in testa al primo ranking ATP di sempre il 23 agosto 1973. Al campione romeno è dedicato Nasty, documentario di Tudor Giurgiu, Tudor D. Popescu e Cristian Pascariu, presentato alla 19ª edizione della Festa del Cinema di Roma, nella sezione Best of 2024 dopo essere passato come proiezone speciale al 77° Festival di Cannes.
E non è stato solo il primo n. 1, ma anche il primo grande campione del tennis proveniente dall’Est Europa, il primo ad introdurre indumenti colorati in un’epoca in cui tutti i tennisti si vestivano di bianco, il primo sportivo a firmare un contratto con la Nike, ma anche il primo a protestare continuamente, colui che con Arthur Ashe ha dato vita all’unica partita di sempre in cui entrambi i giocatori sono usciti sconfitti. Dotato di un talento eccezionale e di un temperamento particolarmente nervoso, è stato genio e sregolatezza, vincendo tanto, ma meno di quanto avrebbe potuto. Sposato 5 volte, senatore della Romania, autore di gialli, è stato più che un tennista: un’autentica rock star.
Nasty è un documentario piuttosto classico e semplice, senza particolari innovazioni, ma in cui tutto si incastra perfettamente, con grande precisione. Interviste e immagini di repertorio si alternano per ripercorrere la carriera del protagonista, dalla fine degli anni ‘50 ad oggi. Ne viene fuori un ritratto estremamente preciso, in cui il personaggio Năstase è indagato da cima a fondo, in tutte le sue sfaccettature e contraddizioni. Dopo averne conosciuta l’infinità abilità tennistica e i limiti imposti da un carattere spesso fuori controllo, sul campo e fuori, lo spettatore è portato a provare simpatia nei suoi confronti grazie agli aneddoti di amici/rivali come Stan Smith e Jimmy Connors. Si crea una profonda empatia tra chi guarda e lo stesso Nasty, di quelle che si generano quando un idolo mostra i suoi lati più deboli, scende dall’Olimpo per diventare umano. Si tratta di quel fascino esercitato dai vari George Best o Carlos Monzón.
Tale ricostruzione a 360° del tennista è funzionale alla struttura stessa del lungometraggio. Il pubblico impara ad amare il protagonista, quando effettua volée da sogno e quando furioso spacca la racchetta, quando scherza con gli avversari e quando litiga con incolpevoli arbitri, in tutto e nonostante tutto, per poter stare al suo fianco al culmine del film, rappresentato dalla finale di coppa Davis giocata dalla nazionale romena a Bucarest contro gli Stati Uniti nel 1972. Si soffre con lui per la pressione che avverte in casa sua, in un ambiente che ama ma che allo stesso tempo respinge. In questo momento il film cambia passo. Sullo sfondo, silenziosi fino ad ora, vengono mostrati gli anni della dittatura di Nicolae Ceaușescu, in cui gli sportivi sono strumentalizzati per creare un’immagine positiva del paese nei confronti del resto del mondo. Un’immagine a cui Năstase non riesce a contribuire fino in fondo, arrivando alla sconfitta nella stessa finale, in cui sembra irriconoscibile. Il campione, capace di vincere 7 slam, è perdente in patria, sopraffatto dal proprio pubblico che dovrebbe amarlo, contestato. Un uomo che ha conquistato il mondo, ma si fa schiacciare dalla sua Romania; che ha rivoluzionato uno sport, ma non è in grado di lottare per un paese in cui non si riconosce. Un’ulteriore contraddizione che il film rappresenta perfettamente, costituendo, alla pari di opere come Senna o Diego Maradona, uno dei migliori ritratti sportivi degli ultimi anni.