Ne croyez surtout pas que je hurle, di Frank Beauvais

Straordinario diario cinematografico di una depressione lunga mesi, il vincitore del Sicilia Queer Filmfest 2020 è una salmodia personale inneggiante al potere catartico dell’immagine in movimento

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

Ci sembrano parlare da vicino i percorsi compiuti da Frank Beauvais, il cineasta francese vincitore della sezione Nuove Visioni all’edizione 2020 del Sicilia Queer Filmfest, nel suo miracoloso esordio sul lungo Ne croyez surtout pas que je hurle, conosciuto anche col titolo internazionale di Just don’t think I’ll scream. Visto per la prima volta nella sezione Forum della Berlinale 2019 e poi al DocLisboa e al Torino Film Festival, il film del musicista e programmatore di rassegna cinematografiche riesce a svelare nei suoi 75 minuti di durata il suo io più profondo esclusivamente attraverso le opere artistiche degli altri. In una maniera ancor più radicale ed allo stesso tempo intimistica delle Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, Beauvais utilizza infatti la narrazione diaristica in voice-off, incentrata su un periodo nerissimo della sua vita, facendola scorrere su un tappeto ininterrotto di sequenze visive di 3/4 secondi massimo, prese in prestito dai 400 lungometraggi visionati in appena sei mesi di doloroso esilio auto-imposto. Uno spaccato d’esistenza transeunte insomma, queste antiche emulsioni su pellicola, ancor più straordinarie per il loro carattere di finitezza e forse proprio per questo cercate disperatamente dalle retine di un uomo che s’accorge solo a 45 anni che il mal d’incompletezza non è privilegio dei giovani. Nell’esiziale 2016 raccontato dalla voce trattenuta dello stesso Beauvais egli torna a soffrire infatti di una depressione stordente, ancora più annichilente perché contingente alla rottura con il compagno. Il regista abbandona così una sceneggiatura commissionatagli e dall’Aprile all’Ottobre di quell’anno si isola in un villaggio dell’Alsazia dove la pompa di benzina più vicina è a 20 km di distanza e anche chi “viene dal paese vicino è uno straniero”. Facendo della propria casa la sede di un autarchico festival cinematografico egli diventa un esperto di download rigorosamente illegali, smaliziato ricettatore di Dvd e matematico maratoneta della visione dato che in questo periodo non scende mai sotto la media di 3 film al giorno. Ma in questa ossessiva ricerca della catarsi catodica ad un certo punto il ricordo del padre venutogli a morire tra le braccia un paio di anni prima durante la visione di Le Ciel est à Vous (The Sky is Yours), di Jean Grémillon del 1944 ribalta l’assunto di questo esperimento facendogli perfino allargare il campo di visione pessimistica. Come fosse un adolescente rabbioso la sua furia demolitoria supera i confini dell’anima cercando di abbattere perfino quelli della società lasciata fuori campo. E anche se possono sembrare invettive sbalestrate i riferimenti al Bataclan, agli attentati in Turchia e in Siria ed ai terremoti del Centro-Italia rendono ancora più allucinato il lucido delirio a cui il film non rinuncia mai nella sua fredda metodicità. Scegliendo di accompagnare questo ininterrotto flusso di coscienza da un avvolgente flusso visivo decontestualizzato la forza dell’operazione ne risulta rafforzata. Beauvais a volte fa delle immagini la didascalia alle sue parole, altre volte le fa diventare corollario metaforico alle tesi espresse, altre si lascia sommergere dall’assenza di senso lasciando che sia il semplice accostamento di, ad esempio, un grillo ridotto su una sedia di metallo a giocare metonimicamente col suo stato. Difatti ci troviamo di fronte ad una ricercata sequela di aporie come unica soluzione ad una crisi esistenziale, sistemica e mediale. “Ne croyez surtout pas que je hurle” per certe analogie è ciò che sarebbe stato “Il mio cuore messo a nudo” se Baudelaire si fosse drogato non d’oppio nei nebbiosi boudoir ma di altrettanto psicotrope sostanze audiovisuali nelle fumose sale di cinema.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

Beauvais appare da subito profondamente consapevole del fatto che la complessità del frammento/tormento personale per un uomo del 2019 non possa più riversarsi semplicemente su un libro dell’inquietudine di pessoana memoria ma debba trovare altri canali mediali ove far fluire le mille forme in cui si diluisce il dolore di un post-moderno. Insomma, quando il cinema è la tua vita non resta che chiedere aiuto al simulacro di celluloide per salvarti dalla morte. L’immaginario a cui ricorre il registra transalpino è però quello ancora novecentesco, significante e significativo che non cede un millimetro (di fotogramma?) alla sua versione debole, come invece nell’ideologia ha fatto il pensiero. Non c’è quindi nemmeno un estratto in Ne croyez surtout pas que je hurle dai quei parricidi che ciclicamente vorrebbero essere le serie tv ma, assenza ancora più significativa, non c’è nemmeno spazio per il digitale, o quasi, forse giusto tre sequenze che impallidiscono con il loro luccichio uniformante di fronte alle impressioni che la luce trasmette(va) su un supporto fisico destinato sì ad usura ma vivo proprio per quello. Il cinema per Beauvais allo stesso tempo non arriva ad assumere le forme popolari di una scontata terapia: per uscire dal tunnel oscuro della sua reclusione egli rinuncia all’accecante egida dei capolavori e alla corporeità degli attori famosi. Certo, c’è il rifiuto dell’industria e di Hollywood (la scomparsa di Michael Cimino che lo colpisce così a fondo apre un’altra grande, magnifica contraddizione), c’è la concentrazione particolaristica come per tutti i cinefili di questo mondo su alcuni generi (i pinku eiga, i gialli italiani, i soviet films) ma lo splendido montaggio di Thomas Marchand di ogni singola scena si ferma sempre appena un attimo prima del baratro del riconoscimento cinefilo, taglia ad appena un frame dalla compilazione complice dello spettatore che vorrebbe consolarsi insieme all’autore condividendo il comune gusto/gesto estetico. Di fronte a questa bellissima sfuggente epifania di epifanie i titoli di coda finali svelano invece la soluzione alle frustrazioni sollevate dal lungometraggio fornendo l’elenco dei film apparsi come se fossero nomi in una stele commemorativa. Del passato dolore o del cinema passato?

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

Sending
Il voto dei lettori
0 (0 voti)
--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative