Nel nome del padre, di Marco Bellocchio

Provocatorio e impetuoso, l’urlo ribelle contro le ingiustizie di una società corrotta in cui si profetizza l’inevitabile implosione. Stanotte su Fuori Orario il director’s cut del 2011

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“Sono convalescente da una scuola di odio e amore; nell’azione cattolica odiai la gioventù comunista. Qualche anno dopo, provai un senso di rancore per gli assistenti dell’azione cattolica. Poi sopraggiunse la fase della pietà universale. Comprensione per tutti. Dopo di che una breve fase di cinismo. Tutti ipocriti, tutti corrotti. Un paesaggio umano disperato, tutti colpevoli. Finalmente un nuovo rilancio classista.”  Marco Bellocchio

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Dai pugni in tasca agli sputi in faccia. La rabbia iconoclasta di Marco Bellocchio si indirizza verso le istituzioni religiose partendo dal dato autobiografico del suo soggiorno da adolescente nel collegio dei Salesiani. La linea narrativa realistica si arricchisce di sfumature surreali fino alla dilatazione paradossale e alla inversione dei ruoli. Il ribelle Angelo Transeunti (Yves Beneyton) getta scompiglio in un collegio gestito con metodi vetero-testamentari da preti molto singolari capeggiati dal Vice Rettore Padre Corazza (Renato Scarpa). Siamo nel 1958, l’anno della morte di Pio XII ma all’esterno le automobili sono dei primi anni 70. L’alto borghese omosessuale Franc (Aldo Sassi) e il proletario meridionale Salvatore (Lou Castel) subiscono il fascino del superuomo nietzschiano Angelo (del demonio).

Esistono due versioni di questo film: quella originale brechtiana del 1971/72 di 109 minuti molto urlata, con numerose sottolineature e riferimenti politici e quella accorciata a 90 minuti del 2011 più vicina alla carica sovversiva di Zero in condotta di Jean Vigo.

L’inizio è provocatorio: Angelo e il padre si colpiscono ripetutamente con rumorosi schiaffi prima dell’ingresso in un collegio che dovrebbe ammansire il focoso temperamento di un ribelle senza una causa. Nella struttura gerarchica religiosa Marco Bellocchio nasconde l’arte seduttiva di un sistema di potere che ha il solo scopo di garantirsi sopravvivenza e privilegi, mistificando persino gli atti caritatevoli. E la forma di governo più sicura e duratura è quella che si fonda sulla paura, come il fascismo e il nazismo. Le divise usate dai collegiali ricordano quelle delle SS e la figura teutonica di Angelo è un misto tra Helmut Berger e Malcom McDowell. Nel nome del padre raccoglie quasi tutti i temi del regista: il rapporto conflittuale con la figura genitoriale (il Vicerettore è una deviazione nevrotica della figura paterna, la mamma Laura Betti viene presa a pistolettate in una delle migliori scene del film), il tema della follia come risposta a un sistema repressivo (il collegio sembra più un manicomio ed ogni figura ha le sue ossessioni e perversioni), il suicidio come estrema forma di ribellione (aleggia il fantasma del fratello gemello morto suicida nel 68), la rappresentazione teatrale come allegoria simbolica della lotta al potere (il Faust viene rappresentato alla maniera ‘brechtiana’ mentre nella platea si scorgono burattini-cadaveri), la pulsione sessuale colpevolizzata dalla morale cattolica ( i convittori hanno fantasie onanistiche sulla statua della madonna), le condizioni del sottoproletariato schiavizzato dall’alta borghesia che ne sfrutta la mano d’opera, il razzismo intellettuale di una classe alto borghese divorata da sensi di colpa (Franc che si lega alla sedia come Vittorio Alfieri) o in preda ad astratti furori reazionari (il delirio nazional-socialista di Angelo).

Bellocchio nasconde sotto la iperbole della immagine (i muri demoliti del collegio che in realtà è il Liceo Massimo a Roma, i vetri colorati nel loculo di Padre Mathematicus interpretato dal bravissimo Edoardo Torricella, le statue che si animano, le danze in sala mensa e i banchetti di Natale con i servitori serviti dai padroni, il pero miracoloso abbattuto perché anti scientifico) l’urlo ribelle contro le ingiustizie di una società corrotta in cui si profetizza l’inevitabile implosione. In questo Bellocchio ricorda certi morti viventi ‘felliniani’ che danzano mentre la nave affonda in un girotondo anestetizzante. Ma è anche evidente la influenza ‘pasolinian’a che si realizza attraverso dialoghi recitati sopra le righe, spesso enfatizzati, ricchi di citazioni.

Marco Bellocchio prende atto della contraddizione interna che devasta ogni tentativo di cambiamento: i padri gattopardiani fanno finta di accettare un falso rinnovamento per fare in modo che tutto rimanga come è; gli intellettuali borghesi si ergono a giudici dell’umanità ma sono pigri e accidiosi mentre i proletari sono ricattati dalla falsa carità dei ricchi e hanno come unica via di fuga il suicidio. Nel 1971 Bellocchio profetizza il fallimento del compromesso storico, l’avvento del monocolore DC, il reflusso post sessantotto, la crisi della Chiesa non più al passo coi tempi, la scomparsa del sottoproletariato e la dittatura della televisione che trasforma l’Italia in paese sottosviluppato e ipertecnologico. Ma all’alto livello di automazione corrisponde un neo-primitivismo culturale che congela ogni possibilità di progresso. Le musiche di Nicola Piovani rendono perfettamente questo clima malinconico in cui il padre non ha più un nome, il segno della croce diventa un gesto scaramantico e i figli trascinano per le scale i cadaveri sanguinanti dei genitori, convalescenti da una scuola di odio e amore. Hic manebimus non optime.

 

Regia: Marco Bellocchio
Interpreti: Yves Beneyton, Renato Scarpa, Laura Betti, Lou Castel, Piero Vida, Edoardo Torricella, Aldo Sassi, Gisella Burinato
Durata: 90′
Origine: Italia, 1972
Genere: drammatico/grottesco

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
Sending
Il voto dei lettori
3 (2 voti)
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