Nell'abisso degli occhi


Acque che si frangono contro l’ossessione della mente e dell’animo e contro il limite del corpo, unica terra conosciuta. Finis Terrae. E da qui in poi è tutto acqua. E già in The Abyss James Cameron lasciava che l’acqua riempisse anche l’unico, esile, spazio rimasto, dentro il quale era ancora possibile respirare, annegando il corpo amato, negandogli l’aria e lasciando che fosse l’acqua a invaderne il corpo

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Scomparire nell’acqua profonda o in un orizzonte lontano, fondersi nella profondità o nell’infinito, questo è il destino umano che prende figura nel destino delle acque.

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(Gaston Bachelard, da Psicanalisi delle acque)

 

Dunque così, potenza nuda,/io ti raccolgo/nelle mani accostate a formare una coppa./I mondi scorrono fra le mie dita,/ma ciò che sale in noi, acqua che è mia,/acqua riarsa,/chiede una vita.

(Yves Bonnefoy, da Nell’insidia della soglia)

 

L’acqua, l’elemento equoreo, liquido, fluente, scorrevole, come il tempo, la cui fluidità ci attraversa, come fossimo il corpo vitreo di una clessidra. Tempora, ut aiunt, inter digitos effluxerunt… O scivolare sull’acqua, come i titoli di testa de Le temps retrouvé di Raul Ruiz, che scompaiono sul suo scorrere. Il tempo, l'acqua e il cinema, o meglio il cinema come tempo e acqua. Equoreo trascorrere, scorrere attraverso il tempo e con esso. Acqua in-esauribile, indefinito gettito risorgente, risorgiva è anche l’acqua che sgorga dalle terre deserte dell’immaginario, dell’immagine che collide con la finitezza della vita e, come fosse una tautologia, aspira a renderla infinita. E intanto, in Titanic, dallo scafo squarciato la nave inizia, o continua, a imbarcare acqua, a riempirsi d’acqua, ad appesantirsi per mezzo dell’acqua, ondoso moto senza fine delle immagini, del cinema, perché tutto ciò che è stato riportato in superficie, alla luce, ritorni a sprofondare. A inabissarsi. E rimanga sul fondo delle acque, sul fondale, fantasma (Ghost of the Abyss) in attesa di ritornare, ancora, alla luce. Di rinascere.

 

Anche Steven Spielberg ha toccato lo stesso abisso del desiderio, la stessa profondità del cuore, nel finale di A.I. – Intelligenza artificiale, lasciando che le acque si cristallizzassero, si gelassero, e mantenessero intatto il desiderio del ritorno alla vita. O Werner Herzog in The Wild Blue Yonder, in cui l’ignoto spazio profondo era quello delle acque in cui poter ancora vivere. O Michael Cimino che nello struggente finale di Verso il sole dissolve il corpo in uno specchio d’acqua, lasciandovi sulla superficie solo cerchi concentrici. Fino a cadere nelle profonde acque di non so quale fuori-dal-tempo delle ombre di Faust e Margherita in Aleksandr Sokurov, senza tonfo, senza peso, senza gravità, e scendere, anche solo per una “eternità d’istante”, in un nuovo obliante Lete, malinconico e poetico inabissamento faustiano.

Acque che si frangono contro l’ossessione della mente e dell’animo e contro il limite del corpo, unica terra conosciuta. Finis Terrae. E da qui in poi è tutto acqua. E già in The Abyss James Cameron lasciava che l’acqua riempisse anche l’unico, esile, spazio rimasto, dentro il quale era ancora possibile respirare, annegando il corpo amato, negandogli l’aria e lasciando che fosse l’acqua a invaderne il corpo, a circolare nei polmoni. Respirare l’acqua fino a morirne. In un film in cui i volti stessi sono, diventano, giochi d’acqua. Volti e sguardi equorei. Superfici di sguardi che richiamo abissi. È così in tutto il cinema di Cameron, in tutte le sue immagini. Dallo spazio liquido di Aliens – Scontro finale, alla sequenza, meravigliosa, della fuga di Sarah Connor dal manicomio criminale in Terminator 2 – Il giorno del giudizio, girata come in apnea, con il tintinnio sordo dei rumori e l’azzurro della notte riflesso sul biancore freddo degli interni, all’aria irrespirabile del pianeta Pandora, altro abisso, altra Atlantide, proprio come quella che risale in superficie in The Abyss.

E il 3D, ripreso in quel capolavoro che è stato ed è ancora Titanic, è come uno specchio posto di fronte a un altro specchio affinché l’occhio, e con esso il corpo, si proietti quanto più in profondità possa andare. Non ci resta che scendere nelle immagini, rischiare di soccombere a esse, risucchiati da esse. Desiderio di sprofondare nelle spirali acquose dei tuoi occhi, dei tuoi sogni. Come Virgil (ancora The Abyss), o come fa Cameron stesso, che ne ripete la discesa, calandosi nella Fossa delle Marianne. O naufragare. Dopotutto alla fine c’è sempre il naufragio… ultimo evento che attende tutto ciò che in generale viene chiamato alla presenza dal pensiero, per dirla con Karl Jaspers. Da Titanic a Ghost of the Abyss, da The Abyss a Aliens of the Deep alle Marianne, dal cinema alla vita e dalla vita al cinema, in un cortocircuito continuo, come se il cinema non bastasse più alla vita, a colmarne la finitezza, dal momento in cui lo si scopre fragile quanto essa. Non resta che la dolce illusione di poter vivere sul fondo, da esso inghiottiti, prima di riaprire gli occhi, di espellere l’acqua dai polmoni e di riprendere a respirare. Per quanto tempo ancora?

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    3 commenti

    • Ma, in sostanza, di che parla questo articolo? Non ci si capisce niente con tutta quest'acqua. Gli si è forse allagato il giardino?

    • Finalmente sentieri selvaggi riprende a ragionare sul cinema come ha sempre saputo fare, soprattutto in passato. Ci vorrebbero più articoli di riflessione mentre siete concentrati solo sulla notizia. Avete delle buone penne, usatele!

    • Si, qui più che nell'abisso degli occhi siamo nell'abisso del sonno. Speriamo di risvegliarci