N’en parlons plus, di Cécile Khindria e Vittorio Moroni

Il cinema diventa museo vivente contro ogni rimozione operata dalla storia europea ufficiale. In Extr’A al Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano

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I torti della storia possono trovare una pacificazione attraverso il racconto che ne perpetui la memoria, di generazione in generazione. Il cinema contribuisce o può contribuire, in quanto meccanismo evocativo per immagini, quanto di più vicino quindi alle soluzioni offerte dall’introspezione, a questo lavoro di sotterraneo scavo di episodi e vicende che fanno parte di un passato rimosso, di storie mai raccontate, di tutto quel passato che ci è stato raccontato dai vincitori e che invece necessita di un altro punto di vista, di un’altra narrazione.
Cécile Khindria e Vittorio Moroni nel loro film N’en parlons plus, già in programma all’ultimo festival di Torino, e qui, al FESCAAAL32, nella sezione Extr’A, raccontano degli Harki algerini. Durante la guerra di liberazione del Paese, nei primi degli anni ’60 del secolo scorso, erano così chiamate le milizie che hanno combattuto e parteggiato per i colonizzatori francesi contro le formazioni dell’FLN che costituivano il braccio combattente dell’insurrezione liberatrice. Finita la guerra e vittoriosamente per gli algerini autonomisti, il restare in Algeria per i fiancheggiatori dei colonizzatori costituiva un serio problema di sopravvivenza. Rifugiatisi in Francia ottennero un trattamento che si pensava fosse riservato solo al nemico. Isolati in un campo a Bias, ex ospedale psichiatrico, le famiglie degli harki furono tenute ai margini della società senza la possibilità di trovare lavoro, senza scuole e pronti a subire punizioni gravi carcere o ospedalizzazione psichiatrica al primo evento minimamente deviante come quello della rottura di un vetro. In altre parole queste famiglie, a volte numerose, si sono ritrovate abbandonante e maltrattate da un regime che comunque aveva da questi ricevuto solo benefici. Come ci avverte la didascalia finale del film solo nel 2021 la Francia, attraverso il suo presidente Macron, ha fatto pubblica ammenda di questa triste vicenda con le pubbliche scuse a quelle persone e alle loro famiglie.
Sara, la giovane madre dalla quale parte l’indagine, è una delle discendenti di queste famiglie. Il padre quando arrivò in Francia aveva 8 anni e il nonno si dava all’alcol per sanare una lenta e distruttiva disperazione. Sara con la sua figlioletta appena nata parte per questa ricerca nel campo di Bias dove ancora vivono famiglie o singoli rappresentanti di quegli algerini abbandonati a quella vita. Incontra resistenze, silenzi, ma anche pianti e drammatici racconti. Il ricordo è duro, ma lentamente le resistenze si sciolgono e il bagaglio di racconti che Sara raccoglie è pesante e faticoso. Tornata a casa i suoi familiari, la nonna, gli zii si rendono anch’essi disponibili a raccontare, rompendo un silenzio che solo suo padre, ostinatamente, continua a conservare. Anche qui il racconto è doloroso, ma necessario, commovente, ma indispensabile per fare continuare a vivere quel ricordo e l’oscura storia di una ingiusta sottomissione e di una dolorosa sconfitta umana.

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Khindria e Moroni sembrano condotti per mano da Sara in questa discesa verso un altro inferno in terra, aiutati dai pochi materiali di repertorio reperibili, il film naviga tra ricordo e presente, in quella mutevole consistenza dei fatti che sembrano ancora di più amplificarsi se raccontati dalle parole dei protagonisti. N’en parlons plus, titolo quanto mai assertivo rispetto al desiderio di una assoluta lontananza rispetto a quel doloroso passato, diventa l’invasione contro ogni rimozione operata dalla storia europea ufficiale, significa riaprire il libro nero delle brutture di un passato che ciclicamente con prepotenza ritorna sotto altre spoglie. Il film sembra tingersi del colore grigio della memoria dimenticata raccontando ai contemporanei, piuttosto distratti, il dolore dell’emarginazione, del rifiuto, di una pesante ingratitudine. Il cinema sa diventare un museo vivente della storia in una compartecipazione emotiva che lavora in profondo, in uno scambio di realtà con il quale, giocoforza, si mette in moto un meccanismo di assunzione di responsabilità che mette in gioco il nostro presente che comunque nasce anche da queste colpe antiche, commesse da di chi ci ha preceduto. Nemesi storiche ricorrenti in un’Europa che ha costruito la sua storia sulla sopraffazione.
Il rimedio non resta che la partecipazione, quella che Khindria e Moroni ci fanno sentire e vivere, qui forse il riscatto per quelle vite vissute dolorosamente e senza spiegazioni da intere famiglie, vite sono state annullate dall’errore di avere vissuto dalla parte sbagliata del tavolo della storia.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
Sending
Il voto dei lettori
5 (2 voti)
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