NERO/NOIR – Jim Thompson – Bad Jim (3)

Jim Thompson

Alla cerimonia funebre di Jim Thompson erano presenti 25 persone. Poco prima di morire, il 7 aprile 1977, aveva detto alla moglie Alberta: «diventerò famoso dopo circa dieci anni dalla mia scomparsa». La sua profezia si sarebbe presto avverata

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Jim ThompsonBad Jim (terza parte). Ci sono 32 modi di scrivere un racconto, e io li ho sperimentati tutti, ma c’è solo una trama: nulla è quello che sembra

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Alla cerimonia funebre di Jim Thompson erano presenti 25 persone. Poco prima di morire, il 7 aprile 1977, aveva detto alla moglie: «diventerò famoso dopo circa dieci anni dalla mia scomparsa». 
Mentre in patria il suo lavoro era stato relegato al mercato “basso” dei paperback e presto lasciato affogare nel silenzio del fuori catalogo, in Francia Thompson era stato salutato dalla critica come uno degli scrittori americani più importanti del ventesimo secolo. Dal 1950 al 1977 la Gallimard aveva pubblicato nove romanzi. Nel 1966 Colpo di spugna era diventato il prestigioso numero mille della Série Noire. Pierre Rissient si era interessato al lavoro di Thompson fino ad acquistare i diritti di un progetto non ancora terminato, White Mother, Black Son, che non sarebbe mai diventato un film. Con il titolo di Child of Rage (1972) e finito di scrivere solo grazie all’aiuto finanziario di Rissient, White Mother, Black Son era stata l’ultima opera pubblicata in America dallo scrittore. Dopo la sua morte, sarebbero stati proprio due autori francesi, Corneau e Tavernier, meglio di chiunque altro, a far vivere sul grande schermo l’inferno raccontato da Thompson.
Nel 1978 il produttore Maurice Bernart si era aggiudicato i diritti di Diavoli di donne, realizzato, l’anno successivo, da Alain Corneau, un grande ammiratore dello scrittore, che aveva lavorato gomito a gomito con Thompson alla sceneggiatura, poi abbandonata, di Colpo di spugna. Adattato dallo stesso Corneau insieme all’autore di La vie mode d’emploi, Georges Perec, Il fascino del delitto sposta l’azione dalle atmosfere degradate della provincia americana degli anni ’50, alla livida e opprimente periferia parigina e, pur discostandosi in più passaggi da Diavoli di donne ed accentuando le derive grottesche dell’opera di Diavoli di donne edizione Lion e Serie noire locandinaThompson, rimane fedele alla patetica disperazione che, letteralmente, corrode le pagine del romanzo. Attraverso la voce di Frank “Dolly” Dillon, come in tutti i suoi lavori, Thompson parla di se stesso, della sua sorda e impotente rabbia nei confronti di un universo sociale che condanna l’individuo all’annullamento, alla scomparsa, alla misera sopravvivenza in uno stato irreversibile di morte prematura. Nel film di Corneau, Frank Dillon assume le sembianze di Frank Poupart (Patrick Dewaere che, nella sua interpretazione tesa, nervosa fino all’eccesso, restituisce la disorientante instabilità del personaggio thompsoniano), e come l’esattore e venditore porta a porta del romanzo, che incarna l’immagine del fallito senza qualità, ingannato da un sogno dal quale continua ad essere escluso («potete solo cercare di tirare avanti, come tutti gli altri. Come il parrucchiere per cani, il tizio che raccoglie la merda di cavallo per strada. Odiando il vostro lavoro. Odiando voi stessi. E tornando ogni volta a sperare» afferma il protagonista di Diavoli di donne nelle prime pagine del romanzo), rimane schiacciato dallo squallore della sua esistenza e dalla presa di coscienza dell’inalterabilità della sua condizione. Nell’opera di Thompson, la perdita della ragione del protagonista finisce per corrodere il romanzo stesso, imprimendo anche alla narrazione – che collassa su stessa, si scompagina fino perdersi dentro la voce sdoppiata di Frank – il disfacimento di una mente che scivola orribilmente nella schizofrenia. Alain Corneau chiude Il fascino del delitto senza arrivare al delirio finale del romanzo, alla disintegrazione della voce di Frank e, attraverso essa, della scrittura, ma la vertiginosa perdita di centro del protagonista assale e scardina la visione con lo stesso implacabile cinismo che scorre nelle pagine del romanzo.
Colpo di spunga libro e locandina film - Philippe Noiret e Isabelle HuppertNel 1980 Jean-Luc Godard aveva espresso la volontà di girare un film tratto dall’opera che, come precedentemente accennato, già Alain Corneau aveva corteggiato. Era stato invece Bertrand Tavernier ad ottenere i diritti di Colpo di spugna (Pop. 1280. nel titolo originale, pubblicato nel 1964). Il Nick Corey del romanzo – lo sceriffo delle 1280 anime di Potts County, il folle e agghiacciante buffone che Thompson ricalca sul Lou Ford de L’assassino che è in me, ma spingendosi oltre, fino a mostrare, in tutta la sua mostruosità, il vuoto interiore del suo personaggio e che, indossando la terrificante maschera del demonio, veste gli abiti del salvatore sceso dalla croce per lavare nel sangue i peccati di un mondo ormai privo di senso, in cui non esistono più vittime, ma solo miserabili colpevoli – diventa, nelle mani di Tavernier e di Jean Aurenche, Lucien Cordier, il capo della polizia di un dimenticato villaggio dell’Africa francese, che assume le sembianze beffarde e imperscrutabili dello straordinario Philippe Noiret. Realizzato nel 1981, Colpo di spugna si nutre della stessa anarchica sovversione e dello stesso cupo sarcasmo che serpeggia nella caricaturale visione thompsoniana dell’inferno sulla terra, dove, strisciando nella polvere, si aggirano presenze larvali e fantasmi morti da tanto tempo. Tavernier imprime ad ogni immagine e ad ogni gesto di Philippe Noiret, l’allucinata e sconvolgente fluttuazione tra lucida razionalizzazione e mostruoso delirio, tra ingannevole placidità e furioso disordine interiore, che esplode nel mormorio distaccato e divertito di Nick Corey. Nelle deviazioni sotterranee e nelle micro-dissonanze che scardinano la classicità apparente non solo di Colpo di spugna, ma di tutto il suo cinema, Tavernier si avvicina, forse più di ogni altro, alla voce di Thompson, «una voce che in una sorta di frenetico sotterfugio», scrive James Sallis, «smonta un pezzo alla volta quella stessa realtà che sta cercando con scrupolo di mettere in piedi, che parla dei personaggi e dei fatti che stanno attorno alla storia, che ne prosciuga motivazioni e sentimenti fino a restare essa stessa, la voce, sola e incontrastata».
Nel 1983 Colpo di spugna era stato candidato all’Oscar come miglior film straniero. Negli anni ’80, «il periodo Reagan-Bush», sottolinea Robert Polito, «non a caso in un clima sociale assai vicino alla repressione politica, artistica e psicologica dei primi anni Jim Thompsondi Eisenhower, il periodo che aveva visto nascere le sue opere più corrosive», i romanzi di Thompson avevano iniziato di nuovo a circolare in America e, finalmente, ad essere oggetto di un'attenzione critica. Geoffrey O’Brien, con il saggio Hardboiled America, aveva per primo riconosciuto il valore letterario, da sempre negato, delle creazioni confinate nel sottosuolo dei paperback. A Parigi, Barry Gifford aveva “ritrovato” l’opera, scomparsa in patria, di Thompson e, con la Black Lizard Books, aveva avviato, con nuove ristampe, la riscoperta dei suoi romanzi. Come predetto dallo stesso Thompson, la materia brulicante di esseri mostruosamente deformi nella mente e nel corpo, di glaciali assassini ai quali è stato portata via l’anima, di presenze senza più forma, svuotate di senso e di vita, aveva trovato quel successo rabbiosamente inseguito dallo scrittore durante tutta la sua esistenza. Il riconoscimento del valore letterario dei suoi lavori avrebbe presto risvegliato anche l’interesse per Thompson, durato per tutti gli anni ’90, della nuova industria cinematografica americana che, a partire dal kasdaniano Brivido caldo (1981) e in un panorama completamente mutato con l’avvento dell’home video, era tornata a visitare il cinema noir classico, sfornando una serie di prodotti che, riappropriandosi di un immaginario ormai del tutto assimilato, ed esibendo più esplicitamente la scabrosità e la violenza dei temi trattati – purtroppo limitandosi in molti casi a ricalcare senza alcuna invenzione i codici e lo “stile” del genere – erano diventati di grande richiamo e, dunque, facilmente vendibili. I sei film tratti dai romanzi di Thompson e realizzati tra il 1989 e il 1997, incluso il già discusso caso del remake di Getaway! firmato da Roger Donaldson, formano un corpo di opere molto distanti tra loro per obiettivi e risultati. 
Il primo tentativo di varcare la soglia dell’inferno thompsoniano è una produzione indipendente, firmata da una regista al suo secondo lungometraggio, Maggie Greenwald. The Kill-Off si appropria della materia magmatica di Vita da niente (1957), uno dei due romanzi (insieme a Il criminale) dove, sul modello faulkneriano di Mentre morivo, Thompson moltiplica le voci narranti, tutte in prima persona – le voci dei dodici personaggi scandiscono i dodici capitoli dell’opera – in una struttura dove la complessa costruzione multiprospettica riflette, come anche l’assenza di un unico responsabile dell’omicidio di Luane Devore intorno al quale, apparentemente, ruota il romanzo, l’immagine di una società dove tutti condividono la stessa colpa, il peccato originale citato da uno dei personaggi: Marmadukr “Goofy” Gannder, l’ubriaco della spettrale e morente cittadina di Maduwock, nel volto del quale Vita da niente copertina originale, locandina del film The Kill-OffThompson lascia intravedere la sua ombra. In The Kill-Off Maggie Greenwald riduce a sette il numero dei personaggi-narratori e semplifica la trama, perdendo in parte la coralità instabile del romanzo, intessuta di derive narrative che, senza alcuna pietà, scoprono il nauseante rumore del magma putrescente che ribolle oltre l’ipocrita immagine proiettata da una società che si ostina a proclamare la bontà dei suoi principi. Pur riuscendo ad infondere al film lo stesso meschino e deforme squallore della provincia di Vita da niente e la claustrofobica inalterabilità di un organismo sociale irrimediabilmente malato, Maggie Greenwald, apre un varco nel cupo pessimismo di Jim Thompson e traccia una linea di demarcazione tra vittime e carnefici del tutto estranea alla visione thompsoniana. Il villaggio dei dannati del romanzo, dove la vischiosità soffocante del male che, senza alcuna esclusione o possibilità di redenzione, regola ogni esistenza e riduce i rapporti umani a null’altro che un orribile atto di reciproco cannibalismo (un’immagine che occupa anche le magnifiche e deliranti pagine finali di In fuga), si trasfigura, nelle mani di Maggie Greenwald, in un paesaggio nel quale l’innocenza continua ad essere un altrove possibile.
Thompson aveva scritto E’ già buio dolcezza (1955) «come una sorta di sceneggiatura, rinunciando», spiega Luca Briasco,«alle acrobazie linguistiche e strutturali delle opere precedenti e optando per una narrazione secca e fortemente visiva», tanto da realizzare anche un trattamento in terza persona il cui titolo era stato mutuato da un romanzo mai terminato sul Partito Comunista: The Concrete Pasture, il pascolo di cemento, «solo grigiore e vita dura, fin dove riesci a vedere», che ha inghiottito William “Kid Collie” Collins, il protagonista di E’ già buio dolcezza. Nel 1990 James Foley era tornato su E’ già buio dolcezza ed aveva finalmente realizzato quel progetto che Thompson aveva pensato per il grande schermo. Più tardi al buio ricalca fedelmente la struttura del romanzo, le modifiche operate sulla trama sono trascurabili e la maggior parte dei dialoghi è presa direttamente E' già buio dolcezza copertina originale, locandina di Più tardi al buiodalle pagine del libro. Ma a differenza di Thompson – che, dopo aver fatto cadere il lettore nella trappola dell’identificazione, lo lascia affogare in una pericolosa ambiguità senza fondo, che destabilizza la natura e le vere motivazioni dei personaggi – James Foley cede, infine, alla tentazione di scoprire le sue carte, concedendo la redenzione al suo protagonista. Pur mettendo in scena lo stesso universo del romanzo, un mondo dove la sconfitta è l’unica regola certa e dove le relazioni umane sono governate dalla sfiducia e dal sospetto, il Kid Collie di Più tardi al buio diventa, proprio in virtù di quella salvezza guadagnata con l’eroico sacrificio finale, solo una pallida imitazione dell’ex pugile thompsoniano, il perdente imprigionato in un gioco più grande di lui (il rapimento e la richiesta di riscatto) che, con il suo sguardo frastornato e i suoi imprevedibili ed incontrollabili eccessi di violenza, muore abbaiando come un cane, senza aver mai rivelato il suo vero volto, nell’ambiguità irrisolta di un gesto sospeso tra l’atto d’amore e l’autodistruzione di un folle.
Oltre al lavoro di Foley, il 1990 avrebbe visto anche l’uscita in sala del più importante film della decade segnata dalla riscoperta delle creazioni di Thompson da parte del cinema americano. Rischiose abitudini porta la firma dell’inglese Stephen Frears, che con un sorriso sardonico si addentra nell’insidioso labirinto metropolitano della Los Angeles de I truffatori (1963), accompagnato da una guida illustre, Donald E. Westlake – autore di gialli e di romanzi neri, che sotto uno dei suoi diversi pseudonimi, Richard Stark, aveva scritto la sceneggiatura, tratta da una sua opera, di uno dei film noir più rivoluzionari degli anni ’60, Senza un attimo di I truffatori copertina originale, i protagonisti di Rischiose abitudini Anjelica Huston - John Cusack - Annette Beningtregua (1967). Il complesso gioco di maschere e di ingannevoli tracciati («nulla è quello che sembra», non si sarebbe mai stancato di ripetere Thompson parlando delle sue creazioni), messo in scena in uno dei due capolavori, insieme a Colpo di spugna, composti all’inizio del crepuscolo della carriera letteraria dello scrittore, viene fedelmente rispettato – anche se depurato dei suoi passaggi più aspri e proiettato nell’accecante Los Angeles infarcita di falsi miti della fine degli anni ’80 – da Westlake e da Frears, che, come Thompson, simulano un movimento apparente, che non porta da nessuna parte perché nulla ha più veramente senso e, dunque, non rimane altro che l’opprimente ed alienante attesa di una condanna già pronunciata. La visione sempre più cupa di Thompson, che si allontana dalle sperimentazioni dei suoi anni d’oro alla Lion Books, in «una (in)sensibilità più disincantata e adulta», scrive Emiliano Morreale,«che, anziché scompaginare furiosamente il genere dall’interno, lo usa come uno scheletro già morto», traccia il disegno di una forma vuota – il triangolo, formato da Roy Dillon, il piccolo truffatore nascosto nei meandri di Los Angeles, e di due donne speculari, anch’esse truffatrici, madre(amante) la prima, Lily, e amante(madre) la seconda, Moira (nel film Myra) – dove ognuno, nella solitudine del propria dannazione e ormai irreversibilmente inaridito, danza in disaccordo con l’altro, seguendo unicamente il richiamo di un tornaconto personale, nell’indicibile stanchezza di un’esistenza che ha smarrito la speranza e tristemente combatte la sua inutile lotta per la sopravvivenza. Ma se Thompson, parafrasando Pino Cacucci, dopo esser sceso all’inferno, ci rimane (Lily seduce il figlio per consegnarlo alla morte), Rischiose abitudini sceglie invece di smussare il colpo, di distogliere, infine, lo sguardo. All’agghiacciante atto compiuto lucidamente da Lily, Frears sostituisce l’intervento del caso e il bicchiere rotto che uccide Roy diventa solo uno terribile scherzo del destino.
L'altra donna copertina originale, locandina di Hit me, nella foto: Jim Thompson con la madreJim Thompson non ha mai smesso di far vivere, attraverso le sue creazioni, la sua anima oscura, il suo doppio tenuto nascosto nella realtà quotidiana e di intrecciare gli elementi presi in prestito dal suo vissuto con le invenzioni letterarie, in un gioco di specchi deformanti il cui riflesso allo stesso tempo rivela e inganna. Ne L’altra donna (1954) Thompson torna agli anni in cui, per sostenere la sua famiglia, lavorava come fattorino notturno all’Hotel Texas, e, attraverso il complesso edipico di Bill “Dusty” Rhodes, lascia intravedere il suo ossessivo legame con la figura materna e il problematico rapporto con il padre, traboccante di sordo rancore, di cinico desiderio di vendetta e di disperato senso di colpa. «Il romanzo scende così a fondo nel trauma familiare vissuto da Thompson, tanto che questo tema ancora sanguinante poteva esser probabilmente guardato solo attraverso la distanza della narrazione in terza persona», scrive Robert Polito nella biografia dello scrittore. Il tema della colpevolezza e della mostruosità costitutiva dell’uomo torna ancora una volta a fare da sottotesto in un romanzo che, attraverso il lacerante gioco di sotterfugi orchestrato da Dusty per ingannare se stesso nel tentativo di anestetizzare il suo sguardo, racconta la fuga impossibile di una mente prigioniera della sua visione deformante, una visione che, di nuovo, inghiotte e reinventa la realtà fino a creare un paesaggio incerto e inconoscibile (Dusty è il figlio che grida la sua abnegazione e allo stesso tempo condanna il padre alla sopravvivenza in uno stato larvale e infine lo spinge al suicidio). Tutto ciò sembra non interessare Steven Shainberg che, per il suo primo lungometraggio e con l’aiuto di Denis Johnson in veste di sceneggiatore, porta sul grande schermo L’altra donna, strappando però al romanzo la sua anima: il conflitto edipico mai superato di Dusty (ribattezzato nel film con il nome di Sonny) e la riflessione thompsoniana sull’ambiguità della concetto di colpa e di vendetta. In Hit me (1996) nulla di tutto questo sopravvive, Sonny non si confronta con i suoi peccati – non ci sono peccati dai quali tentare di fuggire -, ma semplicemente, tra tic nervosi al limite del macchiettistico, insegue quel Sogno Americano la cui immagine, al contrario di Thompson, Shainberg non tenta mai di sovvertire. Sonny è un personaggio spogliato della “mostruosità” congenita di Dusty, il suo status di vittima, innocente e ingenua, di un sistema ingiusto viene continuamente rimarcato, anziché subire, come nel romanzo, quel processo di lenta erosione che infine mostra, in tutta la sua ripugnanza, il seme generato dal grembo della società americana.
Il film che chiude l’innamoramento del cinema degli anni ’90 per Jim Thompson è un’opera trascurabile, che si limita a riciclare le atmosfere e i motivi del cinema noir classico, nel tentativo di sfruttare l’immagine di un genere ormai trasformato in marchio ed, esasperandone gli aspetti più torbidi e scabrosi, di far leva sul richiamo del trattamento esplicito del sesso e degli impulsi “proibiti”. Fireworks: the lost writing e la locandina di This world, then the fireworksScritto nel 1975, ma pubblicato per la prima volta solo nel 1983, sei anni dopo la morte di Thompson, il racconto Questo mondo, e poi i fuochi d’artificio può essere considerato come un compendio delle tematiche thompsoniane. Nell’insidiosa lucidità della sua follia, la voce distaccata di Martin Lakewood condivide lo stesso disprezzo di Lou Ford per un mondo dove, citando le parole del protagonista, «noi eravamo i colpevoli solo quanto lo era l’intera vita, l’intera società»,e – come Nick Corey – giustifica l’orrore dei suoi atti come l’ultimo gesto possibile per ridonare la vista ad un universo che calpesta e insulta l’uomo. Se attraverso la macabra litania, che canta il fallimento e l’autodistruzione, intonata da Martin e Carol Lakewood – fratelli gemelli e amanti, strappati all’innocenza sin dall’infanzia, due interiorità collassate su se stesse, che non sono altro che il prodotto di una malattia universalmente condivisa – Thompson arriva ad invertire e ad annullare il significato stesso di bene e male, Michael Oblowitz ripulisce invece la narrazione da ogni insidia, si ferma in superficie, alla violenza e alle deviazioni sessuali. This World, Then the Fireworks (1997) è un paesaggio arido, filtrato da uno sguardo estetizzante che, pur rimanendo assai fedele alla trama del racconto, non ne coglie il senso e, trincerandosi dietro una rassicurante e piatta distanza, non s’immerge nella pericolosa ambiguità delle tenebre thompsoniane, non si confronta mai con la vera natura del male.
Dopo This World, Then the Fireworks, le strade di Thompson e del cinema si sarebbero separate per più di un decennio.
Si attende ora l’uscita in sala del progetto che Michael Winterbottom ha iniziato da poco a girare e che dovrebbe diventare il secondo film tratto da L’assassino che è me.

 

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