NERO/NOIR – Milano è nera… e a Brandelli
Andrea Ferrari, milanese DOC, ha esordito nel 2007 con Milano A. Brandelli, rilanciando a modo suo la figura del detective privato. Ora ci riprova con Bravo Brandelli, secondo capitolo della saga dell’investigatore meno cool, ma dal fascino tutto particolare, della storia recente del noir italiano
Presentati…
Sono Andrea Ferrari, ho trentun anni, sono al mio secondo romanzo, Bravo Brandelli. Il primo si chiama Milano A. Brandelli, entrambi sono usciti per Eclissi Editrice. In realtà non faccio lo scrittore a tempo pieno, sono laureato in lingue e letterature straniere, in norvegese, e dirigo un centro polifunzionale del Comune di Milano, sia per anziani che per giovani, in zona Corvetto.
I tuoi libri parlano di Milano. Tu ami Milano, il tuo personaggio sguazza dentro Milano. Com’è, allora, Milano?
Milano secondo me è una città dalle mille opportunità. È molto bella anche dal punto di vista architettonico, con tutte le sue contraddizioni. É particolare; e penso che ogni parte di Milano sia fondamentale per comporre il quadro generale della città, che io amo in maniera sconsiderata. Sono contro l’inquinamento, però non potrei fare a meno del traffico. Quindi giro per la città sia in macchina, sia a piedi, sia in bicicletta, proprio per sperimentare le varie ossessioni che ci portiamo dietro noi milanesi. Il traffico, la fretta, il lavoro. Io per primo lavoro, mi devo spostare, con ritmi particolari: a volte molto veloci, a volte dilatati. E grazie al mio lavoro ho anche il tempo di scrivere, che per me è fondamentale.
Ami solo Milano o anche l’Italia?
Io amo l’Italia, moltissimo. Perché, mutuando quello che dice Gianni Biondillo, per amare Milano non bisogna essere milanesi. Milano è fatta dell’Italia. Come fai ad amare Milano e a non amare il paese intero, l’Italia?
Come hai iniziato a scrivere?
Per caso. La prima cosa che ho scritto è stata la mia tesi di laurea. Un paio di anni dopo, tre per la precisione, mi sono messo a scrivere di Brandelli, in un pomeriggio di giugno o luglio. Ero al lavoro, faceva caldo e volevo parlare di novembre, il mio mese preferito nella mia città. Ho pensato che il noir potesse essere un buon modo per farlo. Mi sono dunque inventato questo detective e ho cominciato a inserirmi in una mentalità noir, a leggere di più, a capire perché volevo cercare di sovvertire gli schemi del genere. Ci ho provato, magari ci sono riuscito, o forse no. Ma sono soddisfatto.
Quanto ti senti scrittore?
Mi sento scrittore nella misura in cui ho voglia di scrivere. Nella misura in cui, quando sento una storia, quando vedo un posto, un paesaggio, una via, immagino, penso, rubo le facce delle persone, guardo. Invento piccoli particolari, li tengo lì, da parte, e poi, magari mentre sto lavorando, mi viene in mente il bambino con la nonna per mano, piuttosto che la signora che entra nella latteria, oppure il posteggio del supermercato. Stupidaggini, cose che al momento non hanno rilevanza, però a volte ritornano in mente.
Potresti scrivere qualcosa lontano da Milano?
Questo non te lo so dire. Per ora penso che le mie capacità di scrittore si adattino a Milano e a Brandelli. Il mio pensiero, in questo momento, è cosa fare. Brandelli non finirà, mai. Non è possibile, nella mia mente c’è sempre. Mi piacerebbe però fare anche dell’altro. Scrivere un noir classico, per esempio; fare un poliziotto cattivo. Parlare dei fatti miei no, perché già i fatti miei rientrano tanto nel mio lavoro. Mi piace rimestare nel torbido. Però non sono convinto che la missione dei noiristi sia quella di analizzare la società. Io sono convinto che la missione del noirista sia quella di fotografare la società.
Brandelli, però, un po’ psicologo lo sembra…
Si, però è proprio uno psicologo della mutua! Quindi è più un gioco, un tirare il sasso e togliere la mano. E queste frasette piccoline, con cui accompagno il mio personaggio, altro non sono che questo. Quando prende una posizione un po’ forte, poi si tira indietro. Sono dei miscugli, degli schermi. Come dire: «Ho detto una cosa seria, ho detto una cosa importante, ma in realtà l’ho detta io… take it easy… sono semplicemente io».
In futuro hai detto che potresti scrivere un noir classico. Hai delle preferenze per quanto riguarda il genere?
Io amo il noir. Amo la nuova, che ormai non è più nuovissima, nidiata di autori. Amo Altieri, mi piacciono Colaprico, Biondillo, per me sono i padri del nuovo noir. Mi piace la sfida, cercare di fare dell’altro, pur rimanendo nel noir. Perché io sono un grandissimo lettore di gialli. Leggo noir di tutti i tipi. Adesso sono alle prese con Bruno Morchio, ho letto Roversi. In genere mi piacciono i libri che leggo. Mi rendo conto però che non riuscirei mai a scriverli.
Magari non ora.
Sì, non ora. In futuro proverò. Ho in testa un poliziotto cattivo, adesso, mutuato un po’ da The Shield. Adesso rimane lì, è solo un’idea. Ho dieci pagine, che ho scritto sei mesi fa, e le tengo da parte. Ogni tanto le riguardo, e penso che non è male. Vorrebbe essere un po’ l’altro lato del mio noir. «Io sono Brandelli, vedete quello che penso, però so che succede dell’altro». Poi, in realtà, nel secondo libro analizzo molto di più quello che si vede in giro: alla maniera di Brandelli ma si parla di lavoro nero, morti bianche, di urbanistica.
Che differenze ci sono tra il primo e il secondo libro?
Il primo libro è una sfida. È proprio la voglia di dire: prendo un genere e lo ribalto, usandone tutti i canoni. Il mio protagonista non fuma, non beve, non si droga, non fa niente di strano; la trama in sé non è fondamentale, si capisce a pagina 100 come andrà a finire il libro. La morte è inserita più come uno spauracchio che come una realtà, una cosa fattuale. Ed è funzionale a quello che ha in testa il personaggio. È un «Buongiorno, io sono Brandelli, vivo a Milano; state attenti perché quando andate in metropolitana potrei esserci io a fianco a voi». Il secondo invece suona come «Salve, sono tornato. Sono Brandelli, vivo a Milano; e sto imparando a vivere, a rapportarmi alla realtà, alla mia maniera ma sto muovendo i miei passi, sto crescendo, sto invecchiando. Sto scegliendo».
Come vedi Brandelli col passare del tempo? Hai già qualche idea?
Ho delle idee. L’età di Brandelli va di pari passo, più o meno, con la mia. Sono fermamente convinto che sia difficile interpretare una voce dominante, come quella di Brandelli nel libro, provando a portarla troppo in là rispetto al proprio orizzonte. Scrivo in terza persona, racconto la storia di Brandelli, quando lo vedrò vecchio vorrà dire che vedrò me, invecchiato, allo specchio. Sarà un detective privato vecchio? Cinico? Più incazzato? Meno? Giocherà a bocce, probabilmente.
Quanto c’è di te in Brandelli?
Guai amorosi a parte, molto. Io sono fidanzato da sette anni e mezzo con la stessa ragazza, Sara. Qualcosa, però, dovevo inserire nel libro. Il male d’amore è fondamentale nella vita di un uomo, un sentimento che tutti abbiamo provato. Aiuta a far sembrare Brandelli più umano, più vicino alla realtà. Tranne quello, il «Brandelli-pensiero» è l’«Andrea Ferrari-pensiero», ma adattato al personaggio. Questi ha una sua fisionomia: è possibile che io pensi delle cose più estreme, o forse un po’ meno categoriche, personalmente sono più collerico e mi ritaglio i momenti di riflessione in coda, in circonvallazione. Siamo vicini, siamo qui, io e lui. Viviamo insieme da trentun anni, un coetaneo che ho scoperto da un po’.
Un aggettivo per i due libri? Uno per il primo, uno per il secondo.
L’aggettivo per il primo libro è «genuino». Per il secondo invece direi «preoccupato». Perché ho avuto un po’ di preoccupazioni nel farlo. Lo avevo cominciato appena dopo aver scritto il primo, senza sapere che me lo avrebbero pubblicato. Poi ho dovuto seguire la stampa del primo libro, quindi mi sono dovuto fermare nella scrittura. Quando ho ripreso a scrivere il secondo ho scoperto che il primo libro andava abbastanza bene. Ho cominciato ad avere gente che mi scriveva via internet, che mi dava degli input positivi; nel frattempo la casa editrice mi aiutava, ristampa dopo ristampa. Mi è venuta l’ansia, non tanto da prestazione: «c’è gente che mi legge, che mi ascolta, che magari si fa una risata su quello che scrivo, o che lo interpreta in maniera totalmente diversa». Questo pensiero mi ha un po’ spiazzato.
Non ti ha anche stimolato?
Mi ha stimolato a fare bene, a migliorare, a cercare soluzioni stilistiche nuove. A provare a fare di più. Io cosa ho fatto? Ho dato più trama. Ho cercato di fare in modo che il cervello di Brandelli non fosse più una monorotaia. Adesso è una ferrovia, con i suoi scambi. Gli ho tolto i paletti di sicurezza, come il suo amico Pisa, gli ho tolto quelle piccole certezze che lo aiutavano. La scelta è quella di far tornare tutto ciò che manca nel secondo libro nel terzo. «Io sono Brandelli, sono tornati anche i miei paletti, ma forse ora i miei paletti non vanno più bene». Vedremo.
Ami il noir italiano, ma anche la Scandinavia, che sta diventando una seconda patria del giallo. Ti piacciono i loro gialli?
Ho letto Håkan Nesser, voglio leggere Dahl. Mi piacciono, ma non ne vado pazzo. Per il semplice motivo che amo la territorialità, e quindi sì, di Stoccolma, della Norvegia, della Svezia, ho vissuto le parti più turistiche, ho conosciuto un po’ di gente, però non mi sono impregnato nella loro cultura. Forse loro non raggiungono le vette di Chandler. Quando leggo Marlowe – e non sono mai stato a Los Angeles – mi offre una fotografia vivida di Los Angeles. Probabilmente perché è lontana. È come parlare del Medio Evo: si possono dire moltissime cose, perché è passato remoto. Chandler è lontano da me, eppure Los Angeles mi sembra più vicina. In realtà quando poi guardi Los Angeles non è così. Penso che la produzione nordica, in questo momento, sia di ottima qualità, molto sentita ma, per mio limite personale, ancora troppo distante.
E invece tra i giallisti italiani, che ultimamente stanno dando ottimi risultati?
Amo Bruno Morchio, mi piace Paolo Roversi, oltre ai padri fondatori del genere.
Parliamo dei nuovi nomi…
Non disdegno la produzione di Francesco Gallone, mio compagno su Eclissi, anche se diametralmente opposta alla mia. Roversi stesso ha un’idea del noir così diversa, classica, capace di toccare le corde giuste. Io scrivo un noir più grezzo, in un certo senso. Sono incuriosito da autori come Massimo Rainer, del quale devo adesso leggere il libro. Ho avuto modo di conoscerlo, parlandoci sono attratto dalla sua opera, dagli autori che gravitano intorno al gruppo MilanoNera.com. Mi piace molto il giallo regionale, quello sardo per esempio. Ci sono un buon fermento e molta meno spocchia. Qualche anno fa i giallisti dicevano: «fateci largo che arriviamo noi»; adesso è un «ci siamo anche noi, ci ritagliamo il nostro spazio negli scaffali delle librerie».
Che spazio si è ritagliato il tuo esordio?
Il primo libro si è mosso molto. Vende tutt’ora discretamente, siamo oltre le mille copie in un anno. Non è male per una casa editrice molto piccola, che si sta allargando solamente adesso. Mi ha dato l’opportunità di farmi conoscere, di collaborare con MilanoNera.com, di partecipare a degli eventi, di incontrare scrittori molto più famosi di me, tipo Gianni Biondillo. Mi ha dato l’opportunità di diventare, a Milano, una voce in più nel coro. Con la casa editrice stiamo lavorando per arrivare oltre i confini della Lombardia. La distribuzione del primo libro non andava oltre Bologna, il grosso è stato venduto in Lombardia. Ricordo che stampammo settecento copie, come prima tiratura, e mi dissero che sarebbero stati soddisfatti di venderne trecentocinquanta da luglio a Natale. A settembre era già in seconda ristampa. Adesso siamo sulle mille, millecento, alla terza ristampa. Il secondo romanzo, invece, è stato tirato subito in mille copie.
Che aspettative hai?
Non ho grandi aspettative, faccio lo scrittore perché voglio raccontare. Chiaro che non mi fa schifo l’idea di diventare uno scrittore da dieci-quindicimila copie, non non si sa mai.
Come sei arrivato a Eclissi? Come li hai conosciuti?
Avevo scritto questo libro in un annetto, avevo il manoscritto e più per gioco che per altro lo volevo inviare, volevo provarci, vedere se mi avrebbero pubblicato. Un aneddoto: a luglio dell’anno successivo – avevo appena cominciato a mandare i manoscritti – dovevo rifare la carta di identità e come professione misi «scrittore». Feci una scommessa: la carta di identità dura cinque anni, se in cinque anni non riesco a pubblicare, non sono uno scrittore. Ho mandato in giro il libro a due-tre case editrici piccole, perché per quelle grandi devi essere o molto molto bravo, o molto molto amico di qualcuno. Io non ero né l’uno, né l’altro, quindi mi sono detto: «Non fate per me e non faccio per voi». L’ho mandato alle case editrici piccole, che mi hanno chiesto il famoso contributo editoriale, chi mille, chi duemila euro, qualcuno mi ha anche scritto che il mio progetto di noir non era vincente, senza neppure leggere il libro (magari avevo mandato solo la sinossi). Devo dire che ho trovato comunque una grande cordialità. Un giorno un amico mi fa vedere un «simil-mille lire», di Eclissi, e mi dice che cercano autori. Era il primo capitolo del libro della nostra editrice, Rosa Ida D’Emidio. Ho inviato il mio manoscritto, sarà stato ottobre. A gennaio ricevo una telefonata, da quella che poi sarebbe diventata la mia editor: «Abbiamo letto il suo manoscritto, vorremmo parlarle». E io per ben tre volte riposi che lavorando per vivere non avevo assolutamente soldi e tempo da perdere. Alla terza volta mi dissero di voler investire sul libro e propormi un contratto, al che ho fissato un incontro. All’inizio c’era un po’ di diffidenza, non sai mai con chi hai a che fare. È una casa editrice che si sta evolvendo, tantissimo, ma siamo ancora coccolati, noi autori, siamo tutti insieme, c’è un rapporto di amicizia oltre che di rispetto, che va oltre il classico legame «editore-autore-diritti». È una sensazione di coinvolgimento, ed è una casa editrice che dà tutto agli autori. È chiaro che la promozione del libro è fatta dalla casa editrice tramite i suoi canali, ma soprattutto dall’autore, sfruttando internet, le conoscenze. Ho aumentato la mia presenza sul mercato e ho contribuito a promuovere la mia casa editrice. Una sorta di auto-produzione. Adesso i nostri libri vengono esposti bene, abbiamo sempre il nostro angolo, ci sono più richieste: s’è creato, sempre parlando di Milano e della Lombardia, un certo movimento.
Internet è ormai diventato un passaparola fondamentale per i nuovi autori e per i piccoli editori. Hai citato prima Massimo Rainer, ne è un perfetto esempio.
Massimo, con questa storia dello pseudonimo, dell’identità celata, se fosse su Mondadori spaccherebbe il mondo. Si mangerebbe Faletti, a prescindere da quello che ha scritto, solo come potenzialità di marketing. I piccoli editori purtroppo si devono arrangiare, però si rimane su un piano più genuino. Ti fa creare i legami. Io con MilanoNera.com ho creato un legame, prima di amicizia, poi di collaborazione. È una cosa importante, farcela senza un ufficio stampa che ti pompa. Sono io che mi promuovo, sono io stesso che mi metto in gioco. Sicuramente dà più soddisfazione.
Ti vedi scrittore non di noir ma di qualcos’altro?
A questa domanda, che è una domanda che fa sempre Paolo Roversi quando intervista su MilanoNera.com, «Sei uno scrittore di genere oppure no?», rispondo così. Io mi sento uno scrittore di noir. Anzi, di grigi milanesi, che è il mio tipo di noir. E non mi vedo a scrivere un romanzo di narrativa, perché secondo me nel mio giallo c’è un po’ di tutto, c’è narrativa, c’è giallo, c’è critica della società, c’è sentimentalismo, c’è un pezzo di romanzo borgherse, un pezzo di elucubrazione nordica, tutto vestito da noir. Ognuno trova la sua dimensione, poi la amplia, però non c’è bisogno di fare come alcuni scrittori, che vogliono staccarsi dall’essere giallisti.
Non è una vergogna…
No, assolutamente. Non è più considerata letteratura di serie B, dal mio punto di vista. Al di là del botteghino, perché comunque i gialli stravendono, ormai è stata assunta come letteratura vera. Io mi sento un po’ emozionato al pensiero di fare letteratura. Il mio professore d’università ripeteva: «Noi abbiamo scelto queste lingue perché amiamo fare letteratura». L’idea di fare letteratura mi inquieta ancor più di tutto il resto.
La classica domanda: progetti per il futuro? Anche se in parte hai già risposto.
Un terzo libro, che mi porterà via i soliti sei-otto mesi. Ho il progetto di collaborare ancora con MilanoNera.com, di leggere altri libri.