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il passo del carneficeViolentato nell’anima dalle atrocità della guerra, dal paesaggio di morte nel quale ha perduto l’innocenza, la speranza, la propria identità, l’uomo che ritorna dal fronte diventa, alla fine della seconda guerra mondiale, uno dei personaggi centrali nel cinema noir americano. Attraverso la figura del reduce il noir scava nelle contraddizioni di una società profondamente mutata dalla guerra. GALLERIA FOTOGRAFICA

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la disperata notte«Guys who joined the infantry, I discovered,

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came back from war one of three ways:

dead, wounded, or crazy.»

Samuel Fuller 

Violentato nell’anima dalle atrocità della guerra, dal paesaggio di morte nel quale ha perduto l’innocenza, la speranza, la propria identità, l’uomo che ritorna dal fronte diventa, alla fine della seconda guerra mondiale, uno dei personaggi centrali nel cinema noir americano. «Le sconcertanti sistemazioni dei reduci dalla guerra si rispecchiano nelle tortuose trame del film noir, nei rapporti sleali, negli eventi imprevedibili, nelle oscure inquadrature, nell’affinarsi del male.»[i]

 

il passo del carneficeIl reduce viene ritratto come un individuo annientato dall’esperienza dell’orrore, schiacciato dalla paura e dalla coscienza della sua fragilità, intrappolato in un’instabilità psichica che lo costringe all’emarginazione e alla percezione di una realtà allucinata, distorta, instabile, dove ogni possibilità di salvezza o di equilibrio vengono negati. L’alterità dell’uomo che torna dal fronte diventa il mezzo per esplorare uno spazio che ha perduto i suoi caratteri familiari e rassicuranti, uno spazio abitato da un nuovo corpo sociale senza più valori, sinistro, minaccioso e corrotto perché basato sulla menzogna.

Realizzato prima del termine della seconda guerra mondiale, nel 1943, Il passo del carnefice di Richard Wallace è un film segnato da un sinistro onirismo, in cui il buio interiore nel quale è sprofondato John McKittrick (John Garfield), un reduce della guerra civile spagnola ossessionato dalla memoria delle torture subite, prende forma attraverso la negazione dello sguardo, attraverso l’oscurità, nella quale il pulsare distorto della vita viene percepito solo attraverso i rumori che essa emette. L’immagine di John McKittrick, corpo che vaga nell’incubo di una mente imprigionata nella paura, si sovrappone ad una rappresentazione ambigua della realtà sociale. Il passo del carnefice lascia che il male s’insinui all’interno dell’America stessa e venga nutrito e accolto dalla società, diventando parte integrante di essa, diventando il volto sconosciuto e minaccioso, che può essere letto nella sua realtà solo attraverso l’esperienza del buio, di un paese malato e ipocrita.

il bandito senza nomeCome Il passo del carnefice, anche Il bandito senza nome (1946), di Joseph L. Mankiewicz, è un viaggio nell’oscurità interiore di una mente che esce sconvolta dall’esperienza della guerra. Attraverso George Taylor (John Hodiak), un uomo che ha perduto la sua identità e la sua memoria, Mankiewicz esplora il malessere di un mondo «dove una società rivolta al futuro si sente schiacciata da dubbi e da forze che trascinano gli individui verso il proprio passato.»[ii] Il percorso di ricerca che il protagonista compie per scoprire la sua identità, la quale finisce per assumere i tratti di quella realtà corrotta e criminale dalla quale George Taylor sta fuggendo, avviene in un territorio senza luce, sfuggente e deformato. L’avanzare verso un futuro visto come possibile liberazione dalla propria colpa diventa un movimento falso e opprimente, che costringe George Taylor a rivivere il tempo dal quale sta inutilmente fuggendo.

 

La figura del reduce dà forma ad un personaggio incapace di guardare al futuro, chiuso nella dolorosa immobilità di chi, strappato alle sue illusioni, sospeso sul baratro della follia si confronta con una realtà priva di senso. La provvisorietà, la debolezza, la disillusione del reduce vengono amplificate dalla corrosione della divisione tra i generi, al ritorno dalla guerra l’uomo si confronta con una donna ormai emancipata e sempre più indipendente, una donna che mette in discussione la centralità del ruolo maschile e la tranquillità dello spazio domestico.

Sebbene storpiata dal divieto imposto dalla marina statunitense di far interpretare il ruolo dell’assassino ad un reduce psicopatico, vittima di improvvisi scoppi di violenza, la sceneggiatura di Raymond Chandler rimane un implacabile ritratto di una realtà che ha disperso i suoi valori. La Dalia azzurra (1946), di George Marshall, racconta l’emarginazione di tre reduci che si confrontano con il crollo del proprio mondo e delle proprie certezze. E se tratteggiando i personaggi di George (Hugh Beaumont) e di Buzz (William Bendix), Chandler proietta l’immagine dell’uomo tornato dal fronte che non trova più posto nella società, del reduce irrimediabilmente segnato nella sua salute mentale dall’esperienza della guerra, è attraverso il protagonista che viene esplorato il confronto con la nuova condizione della donna. Le sicurezze di Johnny (Alan Ladd), la sua fiducia nel genere femminile e nella possibilità di poter trovare pace e stabilità all’interno delle mura domestiche, sono destinate a crollare, a rivelarsi false speranze, di fronte alla figura di una donna, sua moglie, ormai spregiudicata, cinica e indipendente, una donna che non possiede più alcun principio, che ha smesso di credere nella famiglia.

la disperata notteSofferto, cupo, cinico, sospeso nel territorio dell’incubo, il remake di Alba tragica (1939), La disperata notte (1947), di Anatole Litvak, è una discesa nell’inferno interiore di Joe (Henry Fonda), che torna dalla guerra per scoprire che il sogno di pace e prosperità è una falsa promessa, è una menzogna attraverso la quale l’America nasconde il suo volto di morte, avido, indifferente e corrotto. Lo sguardo di Joe, allo stesso tempo folle e disperatamente lucido, è quello di un uomo che non crede più nella vita e che, in un radicale atto di ribellione, sceglie l’autodistruzione, perchè risvegliato dolorosamente dall’illusione di poter sperare nel prossimo, di poter trovare pace e umanità in Jo Ann (Barbara Bel Geddes), ambiguamente sospesa tra la purezza, la falsa devozione e il calcolato interesse. Joe crolla davanti alla consapevolezza che il tempo mitico dell’innocenza è un tempo irrecuperabile perché non è mai esistito, crolla di fronte un mondo che è il male stesso.

 

Il reduce, come corpo della precarietà, diventa la proiezione destabilizzata e disorientata attraverso la quale viene esplorato e denunciato un universo cupo, brutale, malato, segnato dalle contraddizioni di un’America anti-liberale ed intollerante. Il ritorno a casa avviene in un paese profondamente mutato dalla guerra, un paese ossessionato da un crescente senso di minaccia per odio implacabileuna possibile invasione, sia interna che esterna, un paese che scopre la relatività del bene e del male e che viene ridisegnato nella sua forma dall’imponente industrializzazione, avviato irrimediabilmente verso il consumismo e la massificazione.

Odio implacabile (1947), di Edward Dmytryk, uno dei “Dieci di Hollywood”, ritrae Washington come «un limbo o un purgatorio, brulicante di militari tormentati.»[iii] La dimensione distorta, chiusa nella frammentazione del racconto, la brutalità della violenza e l’atmosfera onirica, artefatta, che attraversa tutto il film, rispecchia la condizione interiore degli uomini tornati dal fronte; come afferma, in una  lettura amara della realtà, Joseph Samuels (Sam Levene), l’uomo ucciso dall’odio e dall’antisemitismo di Montgomery (Robert Ryan), nessuno sa cosa accadrà o cosa dobbiamo fare. Sappiamo combattere, ma non sappiamo più chi combattere. Siamo ancora intossicati dall’odio e dalla lotta. Uno finisce con l’odiare se stesso.” Al tema della difficoltà del riadattamento alla vita civile, dell’emarginazione, della sofferenza di chi ha perso se stesso nella guerra e vaga nella propria angoscia esistenziale, si sovrappone la riflessione su una società che è attraversata dallo stesso male contro il quale ha combattuto per quattro anni, «Odio implacabile è imperniato su un forte attacco al fascismo domestico.»[iv] Quella di Montgomery, come quella dell’America, è una vittoria malata, Robert Ryan diventa il volto di un paese violento, razzista e intransigente, un paese che ha tradito i suoi ideali negando all'individuo il rispetto e la libertà di credo e di pensiero.

atto di violenzaIn Atto di violenza (1948) i sensi di colpa di Frank Enley (Van Heflin), un reduce che ha tradito i suoi compagni consegnandoli ad una morte atroce in un campo di prigionia nazista, diventano il mezzo usato da Fred Zinnemann per mettere in discussione il mondo piccolo borghese e il suo perbenismo. L’America del dopoguerra, del boom economico, della pace e della sicurezza, l’America delle comunità suburbane, del successo individuale, della rispettabilità, viene incarnata da un uomo che si è affermato e ha costruito la sua nuova esistenza sulla menzogna, su una colpa aberrante e meschina, la quale improvvisamente riemerge dal passato, dove era stata seppellita, e lo inghiotte lasciandolo sprofondare nel buio della criminalità, della follia e della dannazione. Quella di Frank Enley, braccato da Joe Parkson (Robert Ryan), l’unico sopravvissuto della sua squadra, il doppio oscuro e implacabile del protagonista, la proiezione della suo universo interiore, sconvolto dalla coscienza della propria colpevolezza, è una fuga disperata e inutile da una realtà che gli crolla addosso in tutta la sua inconsistenza, in tutta la sua falsità.




[i] Jack Shadoian, Il cinema gangsteristico americano (Dedalo libri, 1980)

[ii] Renato Venturelli, L’età del noir (Einaudi, 2007)

[iii] James Naremore, More then night (University of California Press, 1998)

[iv] James Naremore, More then night (University of California Press, 1998)

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