New Yorker/Les Inrocks: che cos’è il mainstream?

Jean-Marc Lalanne risponde per le rime a Richard Brody, Francia vs USA nel dibattito per il rinnovamento del cinema indipendente di matrice istituzionale, dalla Fémis al Lincoln Center di New York

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Ogni mese Unifrance, l’ente a carico dell’esportazione dei film francesi negli USA e il Lincoln Film Center d New York organizzano una manifestazione per presentare al mercato americano i prodotti francesi dell’ultimo mese. Ma quest’anno l’attualità cinematografica d’oltralpe ha subito una netta battuta d’arresto… Richard Brody, una delle penne più famigerate del New Yorker, periodico USA fondato nel 1925, ha sollevato un bel polverone a seguito di un articolo pubblicato in data 9 marzo. Tutto inizia con la visione da parte di Brody del documentario “Le Concours“, diretto da Claire Simon, in programma al True/False Film Fest. Il film si concentra sull’esame di ammissione alla Fémis, equivalente francese del Centro Sperimentale di Cinematografia, e dunque sui requisiti di accesso, difficoltà delle prove somministrate, ecc. Da qui, la filippica di Brody, non tanto riferita al film, quanto ad un sistema cinema – quello francese – che secondo lui fa acqua da tutte le parti, a cominciare proprio dalla base educativa. Lo scrittore fa un excursus sulla nascita della Fémis, quindi sull’accordo tra politici e intellettuali francesi perché il cinema nazionale non venisse schiacciato da una presenza smodata di prodotti USA. Lo scopo era trasmettere alle future leve non solo le abilità d’artigianato che la settima arte richiede, ma pure quelle nozioni prettamente artistiche. Stando alle parole di Brody, la scuola si sarebbe limitata ad allevare la prossima fanteria del mainstream piuttosto che artisti eccezionali. “Come risultato, il conservatorio della Fémis è passato dalla tutela al tradizionalismo“. Gli studenti verrebbero indirizzati a trasportare il proprio bagaglio espressivo all’interno di norme e forme preesistenti, dunque inevitabilmente condotti in una gabbia incartapecorita in cui l’autoconservazione misura di più dell’esperimento.

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Il redattore non ha mai nascosto il suo amore incondizionato per i cineasti della Nouvelle Vague, in particolare Truffaut e Godard, ma a partire dalla seconda metà degl’anni ottanta, a detta sua, La Francia non è riuscita a partorire un patrimonio altrettanto geniale. Jean-Marc Lalanne, columnist del periodico Les Inrocks, ha deciso di rispondere alle osservazioni di Brody spostando il focus sull’infondatezza dell’analisi del collega, definita “a dir poco divertente”. Di fatto, il successo commerciale della commedia francese non è imputabile ai responsabili della Fémis né tantomeno ai suoi studenti. Inoltre, come ricorda Lalanne, il redattore del New Yorker, che ha fame di tenere sotto ala film indipendenti, vedi Moonlight, ha implicitamente declassato cineasti del calibro di Arnaud Desplechin, Abdellatif Kechiche, Claire Denis, Bruno Dumont, Jacques Audiard, Patricia Mazuy, Olivier Assayas, Gaspard Noé, Bertrand Bonello, Pascale Ferran e Michel Gondry, appartenenti in qualche modo alla stessa generazione di quelli che Brody considera geniali contemporanei statunitensi come: Todd Solondz, Sofia Coppola, Noah Baumbach, Alex Ross Perry o Richard Linklater.

Lalanne seguita la sua personalissima invettiva paragonando il pensiero di Brody a quello di uno stratega dell’industria: “Dietro all’esaltazione romantica della creazione artistica come colpo di stato perenne, dell’ingiunzione al rinnovamento, c’è anche la difesa appena mascherata del liberalismo senza freni (…) Nella sua rimessa in causa di una misura d’eccezione che regolamentasse i prodotti culturali rispetto alle regole vigenti per tutti gli altri, il punto di vista di Brody differisce poco da quello dei rappresentanti degli studios hollywoodiani“.

 

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