Nino Manfredi, "tanto pè cantà il cinema".

Se ne è andato, a 83 anni, anche Nino Manfredi, l'ultimo dei grandi della nostra commedia, un interprete la cui fisicità, sempre ricostruita eppure irresistibilmente naturale e immediata, si avvicinava a quella di un corpo quasi mutante, un organismo transmediale che viaggiava veloce accumulando tracce disordinate e vitali dal mondo dello spettacolo

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C'è un secondo nella vita di un attore in cui il passato, il presente e l'ipotetico futuro sembrano sparire, cancellarsi, venire meno. E' un istante solo, un puro momento di follia ispirata, che con un colpo di mani dirada nomi e film, gavetta e maturità, per farsi presenza assoluta, fine a se stessa, immensa allora, nella misura in cui riesce ad imporsi quale ricettacolo di calcolo e istinto, vita e morte dell'/nell'arte. Nino Manfredi è stato uno dei nostri più grandi interpreti, un corpo spettacolare assolutamente moderno, avanti proprio nel definirsi su un'addizione che nel corso degli anni ha sommato cinema e teatro, televisione, rivista, pubblicità e canzone. Non basta. E' stato uno dei pochi a potersi permettere il lusso dell'istante di grazia prima menzionato, uno di quegli strappi emotivi ed intimi che si sedimentano nel cuore, facendo radici. Ma ci torneremo più avanti. Nino Manfredi allora, mancato a Roma all'età di ottantatre anni, dopo una lunghissima malattia, nasce a Castro dei Volsci (Frosinone) il 22 marzo del 1921 e, dopo aver con seguito la Laurea in Giurisprudenza, muove i primi passi all'Accademia d'Arte drammatica di Roma. E' poi la volta del Piccolo Teatro di Milano e di alcuni teatri di Roma dove fa una gavetta dura e provante, cimentandosi con autori del calibro di Orazio Costa e di Eduardo. Manfredi è un interprete solo apparentemente calmo e sommesso, in realtà cova una irrequietezza che già a metà anni Quaranta lo fa passare velocemente dai testi impegnati a quelli della rivista, per sfociare poi nel cinema con la prima apparizione ne Il Monastero di Santa Chiara di Mario Sequi del 1951. Sin dalle prime opere interpretate Manfredi dimostra un talento inusuale per il cinema italiano di quegli anni. Si tratta infatti di un interprete che, lontano dall'aggressività mattatoriale di Sordi e di Gassman e dall'inquietudine complessa di Tognazzi, lavora su corde meno appariscenti, recita quasi in silenzio, con una fisicità in fondo timida, lambita sì da soprassalti improvvisi di ribellione, ma in fondo bene assestata su registri tenui e quasi malinconici. In questo senso Manfredi non ha mai occupato lo schermo con quella carica nevrotica e invasiva tipica di altri suoi colleghi, ma preferiva rifugiarsi nella casualità traballante di una presenza sì cinematografica, ma ancor di più trasversale al cinema, per il suo essere in fondo permeata da seduzioni allettanti provenienti anche da altri medium.

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Se allora il cinema di Manfredi degli anni Cinquanta fu improntato allo sfarzo della commedia all'italiana seguita in un po' tutti i suoi cliché (parliamo di opere come Venezia, la luna e tu, Audace colpo dei soliti ignoti, Guardia, ladro e cameriera), non bisogna dimenticare l'attività televisiva con opere diretta da Anton Giulio Majano come L'alfiere o anche Un trapezio per Lisistrata in cui duettava con Delia Scala. E' sempre con la grande attrice recentemente scomparsa che poi Manfredi graffiò il palcoscenico televisivo con la conduzione nel 1960 di Canzonissima, in cui formava peraltro una formidabile coppia comica con il grande e sottovalutato Paolo Panelli. Anche lontano dai riflettori cinematografici, Manfredi possedeva un indubbio furore spettacolare e ancor di più un'accattivante e istintiva carica di simpatia che lo portava a inventare di volta in volta dei personaggi e dei modi di dire (celeberrimo in questo senso il suo "barista di Ceccano" creato proprio nell'edizione di Canzonissima da lui condotta), ma anche un modo assolutamente particolare di porsi proprio nei confronti della messa in scena dello spettacolo che ne sarebbe venuto. Lontano infatti dalle limitazioni del teatro (che pure fece e studiò) e in fondo anche da quelle di un cinema troppo spesso chiuso in griglie asfittiche come quello della nostra commedia di costume, Manfredi creò dal nulla delle zone intermedie in cui il cinema sfumava presto nella caricatura di vita, nel motto divertente, o anche nella canzone, come nella sua famosissima ripresa di Tanto pè cantà in cui usciva proprio fuori la sua anima genuina, contadina se vogliamo, figlia di una sperimentazione (sulla voce, sul gesto, sulla parola) lontana mille miglia da ogni laboratorio intellettualistico dell'epoca. E' per questo che allora la sua fisicità, sempre in qualche modo ricostruita, eppure irresistibilmente naturale e immediata, si avvicinava in modo sempre più preciso a quella di un corpo quasi mutante, un organismo transmediale che viaggiava veloce accumulando tracce disordinate e vitali dall'intero mondo dello spettacolo. Riduttivo allora parlare solo di cinema, anche se negli anni Sessanta (senza dubbio il decennio più fruttuoso e interessante del Manfredi cinematografico), Manfredi creò personaggi memorabili come quello del press-agent nel capolavoro assoluto di Pietrangeli Io la conoscevo bene, quello dell'evaso in A cavallo delle tigre di Comencini, quello del fotografo de La parmigiana sempre di Pietrangeli, ma anche quella del latitante borghese di Riusciranno i nostri eroi… di Scola (uno dei campioni al box office dell'epoca).

Uno, nessuno e centomila personaggi differenti allora, anche se per Manfredi non si può parlare di camaleontismo alla Sordi: il suo è in fondo un personaggio che ricorre di film in film, un corpo che non ha il coraggio della trasformazione, ma quello della resistenza su coordinate pressoché fisse dettate da un preciso schema sociale (alcuni strappi in questo senso furono apportati negli anni successivi da opere come Il giocattolo, ma anche dal cinico Brutti, sporchi e cattivi di Scola). Negli anni Settanta poi Manfredi si cimenta alla regia con Per grazia ricevuta in cui il protagonista Benedetto Parisi (lo stesso Manfredi) va a ritroso nella sua esistenza, incasellando quadretti che derivano direttamente dalla commedia all'italiana, tanto che il film fu un straordinario successo di pubblico (non bissato dalla seconda regia dell'attore, Nudo di donna). Un attore vicino ai gusti del pubblico allora, un attento studioso dei tempi che mutavano vertiginosamente, e ancora un preciso esecutore di testi che, plasmati dalla sua esperienza e dal suo modo di vedere le cose e di sentire il cinema, si trasformavano sempre in un qualcosa di malinconico e profondo, di vivace e di irrimediabilmente perduto. E' per questo che uno dei suoi ruoli della vita (oltre a quello strafamoso del Mario di Straziami, ma di baci saziami di Dino Risi) è proprio quello dell'infermiere del miglior Scola di sempre, C'eravamo tanto amati, in un cinema in cui la decantazione della vecchia commedia si fa commiato leggero e profondo da un intero mondo di personaggi e di racconti che avevano improntato gran parte del nostro cinema del dopoguerra. Manfredi qui gareggia in bravura con Gassman e Satta Flores, e certo è che la sua aria disillusa e triste non si dimentica facilmente. Tra gli anni Settanta e gli Ottanta vi furono poi altre belle interpretazioni (quella in Pane e cioccolata di Franco Brusati, in Trastevere di Tozzi da poco riscoperto in dvd, ma anche nel sodalizio col Manni di Nell'anno del Singore, Nel nome del papa re, Il secondo Ponzio Pilato, Nel nome del popolo sovrano, sino ad arrivare all'ultimissimo La carbonara), ma in questi anni Manfredi visse anche il cambiamento della televisione dell'epoca, con La vita di Gesù (dove interpretava Barabba) fino ad affermarsi negli ultimi anni con il bel successo della serie Linda e il brigadiere, in cui recitava accanto a Claudia Koll. Ma prima ancora, il coronamento di tutta una stagione, artistica e umana, professionale e privata. E' il 1972 e Nino Manfredi si improvvisa Geppetto nello straordinario Le avventure di Pinocchio di Comencini, conferendo al personaggio creato da Collodi un'aurea di tenerezza e magia che mette ancora oggi i brividi. Lo stesso Comencini ebbe a dire che "soltanto un attore come Manfredi sarebbe stato capace di parlare con un pezzo di legno". Aveva ragione.

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