NIPPONICA

E’ realmente un cinema ‘selvaggio’ quello prodotto nell’Arcipelago giapponese e per più motivi: innanzitutto per la sua scarsa attitudine a farsi scoprire, studiare, esplorare, in una sola parola ‘vedere’. Poi perché parimenti risulta difficile da amare, vista la sua tendenza a sfuggire da quelle convenzioni che pure ci permetterebbero di inquadrarlo meglio e apprezzarne le peculiarità interne, i legami con la realtà sociale in cui sono stati prodotti, i generi, le convenzioni. Invece la sua fruizione dev’essere, appunto, ‘selvaggia’, con pochi scampoli raccolti attraverso carbonare frequentazioni dei luoghi di distribuzione fra i quali da quest’anno (visto il grande successo ottenuto dalla sezione Nipponica) si deve meritoriamente affiancare anche il Torino Film Festival. Lo sguardo (parziale) sugli universi filmici del Sol Levante proposto dalla manifestazione piemontese, va da se, non fa altro che confermare la sensazione che l’unico approccio possibile, almeno per ora, a questo cinema sia unicamente quello “sensoriale”. O meglio, che, superato l’ostacolo invalicabile delle metropoli corporee e dei corpi metropolitani degli Ottanta, in questo scampolo di fine secolo il cinema nipponico cerchi se stesso, la sua collocazione nel mondo e la identità dei propri personaggi in un altrove immaginifico e naturista. Già lo scorso anno i due film proposti in concorso (due piccoli capolavori peraltro) come Shady grove di Shinji Aoyama e 7/25 (Nana-ni-go) di Wataru Hayakawa, avevano lasciato intendere questa deriva apolide e questo smarrimento ormai non più tanto nascosto della realtà cinematografica giapponese. Una pulsione peraltro già compiutamente espressa dallo stesso portabandiera internazionale Kitano nel suo magnifico Silenzio sul mare, vera ode ‘silenziosa’ alla necessità di ripensare i rapporti di espressione del sentimento nel Giappone moderno, caratterizzato dall’esubero – e quindi dallo scialacquio – della parola. Dunque non stupisce che, in quest’ottica, il piccolo film di Mito Hineki, Homesick, consegni ai suoi 60 minuti di durata il compito di rivelare proprio l’inutilità della parola come mezzo ormai inadatto ad esprimere compiutamente la propria necessità di interazione con gli altri. Apparentemente distaccato nella confusione dei suoi protagonisti (che trascorrono il loro tempo insieme a raccontarsi/raccontarci false storie sul loro passato) il film è di fatto un road-movie senza uscita, chiuso in una narrazione circolare (l’inizio e la fine sono simili, con la giovane protagonista Akemi che abbandona il suo fidanzato) e in un ritmo contemplativo che libera il film dai legami opprimenti della narrazione, per dare sfogo ad un bisogno imploso di interazione reciproca, totalmente, silenziosamente, racchiuso nel calore e nella gestualità dei suoi protagonisti. Il tutto in un paesaggio alieno da qualsiasi tentazione metropolitana e iscritto in una realtà naturale che ha perciò ai nostri occhi anch’essa il sapore (e i colori) di un luogo totalmente alieno da qualsiasi realtà.
Come certamente ‘mentale’ è il Giappone dei quattro giovani protagonisti di 19, di Watanabe Kazushi, quasi coetaneo dei suoi adolescenti (è nato nel 1976), le cui avventure si collocano in un universo quasi espressionista, riprodotto attraverso una definizione video molto bassa. Attraverso la storia di uno studente rapito da tre malviventi con i quali si ritrova a convivere le distruttive imprese, dunque, il regista estrinseca palesemente il vuoto pneumatico di una generazione alla ricerca della propria identità e che pertanto si oppone al mondo estraneo con una spinta ossessiva alla trasgressione. Certo l’intento di Watanabe è forse troppo evidente e a tratti si ha l’idea di una scarsa sincerità, ma nel complesso il film convince abbastanza. La sua coetanea Yamashita Nobuhiro invece è distante da queste sperimentazioni visive dal momento che preferisce tornare all’origine del problema e porre come baricentro del suo film Donten seikatsu, i personaggi. Il film, infatti, è visivamente meno ricercato degli altri, ma incanta proprio per l’affetto che la regista è riuscita ad infondervi e a trasmettere allo spettatore nel ritrarre la vita dei due assurdi ‘tipi’ Kiyoshiro e Tsutomu – l’uno vestito in maniera sgargiante, con ciuffo a banana, calze rosso fuoco e maglietta della Fiorentina, l’altro perennemente afflitto da un’espressione pigra e inebetita – e per l’ironia affettuosa che non cade mai nel comico puro, ma contrappunta le vacue giornate dei due senza assumere mai il peso di una condanna, quanto di una complice empatia. E il film è tutto lì: iscritto nelle figure, le facce e le movenze annoiate di questi due personaggi, spettatori di una vita cui non sanno relazionarsi. Un prodotto gustoso che, proprio in virtù della sua annoiata allegria (sublime ossimoro, figura retorica tanto cara a molto cinema asiatico), può permettersi anche un finale festoso in cui tutti i personaggi si ritrovano fra colorati petali che avvolgono poeticamente l’inquadratura.
Tre film, dunque, per tre modi di raccontare storie di umane secessioni fra i loro uomini e i rispettivi mondi incapaci di accoglierli e di riprodurre le loro (nostre) aspettative da sogno. Ryuko in the unfaithful evening, di Ujita Takashi, pare proprio inserirsi come ultimo lato di questo quadrilatero allo scopo di fornire la giusta collocazione a questo cinema ‘interiore’ nella produzione contemporanea. L’opera è infatti affine alle altre per ritmi, spazi e tempi, con ellissi molto ampie che annullano la continuità conferendo all’universo narrativo una qualità astratta ed eterea, ma poi se ne separa per abbracciare un discorso sul cinema tutto. La doppia direzione narrativa del film, equilibratamente diviso fra un fratello che “vandaleggia” con gli amici e una sorella – la Ryuko del titolo – che per mantenere la famiglia si vede costretta ad interpretare dei film pornografici (salvo poi essere per questo cacciata di casa dal padre), riflette infatti proprio sul cinema (e su questo cinema ‘dolorifico’) come parte integrante di un circuito di produzione/distribuzione/consumo che fa del dolore l’aspetto significativo e denotativo. Il corpo segnato da una vita di dolore e di attese tradite (Ryuko) diviene così immagine per permettere ad altri corpi e ad altre immagini (suo padre e suo fratello) di esistere per raccontare altre storie: Ryuko in the unfaithful evening è così la storia dolente di un corpo che si immola sull’altare del cinema cannibalizzante ed industriale per dare vita e legittimazione ad una sua controparte umana e ‘artistica’ (la vita dei suoi familiari), salvo poi essere da quest’ultimo rifiutato. In questo c’è, dunque, tutta la storia di un cinema mondiale che si sostenta attraverso l’industria per produrre arte anche se poi quest’ultima rimane per pochi ‘selvaggi’ fruitori.
Ma il Giappone è anche territorio di estreme visioni e il Torino Film Festival non si è dimenticato di inserire nel suo carnet anche alcuni esempi di radicalismo tematico e visivo. Se però il già famoso I.K.U. di Shu Lea Cheang ha deluso i puristi delle ‘uncut version’ per il suo essere stato proposto in versione “soft” (anche se l’immagine finale del monte Fuji in questo discorso assume una potenza rilevante in quanto unico scampolo di cinema denotativo in cotanta dispersione spazio-temporale), certamente lo stesso non si può dire del devastante Kichiku dai enkai, di Kumakiri Kazuyoshi, apologo iconoclasta sulla disgregazione umana, innaffiato nel sangue di una generazione orientata verso l’autodistruzione. Con geniale rovesciamento di prospettiva, il regista, infatti, recupera la componente naturista di cui si è finora parlato, ma la trasla in un’ottica negativa. Da una foresta parte così la grande mattanza di corpi che avvolge i protagonisti abbracciando lo spettatore in un turbinio di carni violate, aborti a fucilate, teste mozzate e furiosi rapporti sessuali che riecheggiano l’autoannullamento del Crash cronenberghiano. Retrodatando il suo film negli anni settanta, dunque il regista compone una sorta di ‘ponte temporale’ tornando a Boorman, al suo Tranquillo weekend di paura e adeguando il cinema dell’estremo oriente all’horror americano che dal paesaggio brullo e verdeggiante traeva le pulsioni barbariche che devastavano le carni della sua società corrotta. Una specie di Ultima casa a sinistra del 2000, insomma, ma ancor più radicalizzato nella totale gratuità della follia distruttiva che pone in essere, non subordinata a nessun alibi di vendetta, ma solo a quella volontà nichilista che questo cinema ha fatto sua intimamente e che non cessa di urlare allo spettatore in ogni suo film. Un bagno rigeneratore nel sangue dell’uomo moderno prima di risorgere in altri film, altri spazi, altre storie, altre nature.

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