Nocebo, di Lorcan Finnegan

Un thriller psicologico dai risvolti magici meno interessante dei lavori precedenti del regista che diluisce i riferimenti oscuri e gli incantesimi in un copione mainstream. Fuori Concorso.

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Con il terzo lungometraggio il cinema di Lorcan Finnegan comincia ad essere una forma sempre più definita di thriller psicologico, un contorno intriso di magia composto dall’essenziale presenza animale, un habitat ostile, la centralità del ruolo dei personaggi femminili. Quesi elementi in realtà sono già individuabili nel cortometraggio Foxes, storia di una donna che si trasforma in volpe e torna a vivere allo stato brado, approfonditi nell’eco horror Without Name. Poi è arrivato il successo di Vivarium, ottenuto anche grazie al passaggio al Festival di Cannes, con le sue atmosfere magrittiane, e questo ha permesso al regista irlandese di compiere un evidente salto produttivo ed avere la possibilità di dirigere in Nocebo un cast di prim’ordine, che vede protagonisti Mark Strong, una misteriosa tata filippina, Chai Fonacier, e soprattutto Eva Green. L’attrice francese torna su un genere, il thriller appunto, esplorato con Polanski in Quello che non so di lei e prima ancora con Araki in White Bird in a Blizzard, o nell’apocalisse romantica di Perfect Sense di David Mackenzie alle prese con una strana epidemia. Qui interpreta una famosa stilista per bambini colpita da una qualche maledizione che le provoca un crollo fisico e nervoso, apparentemente senza cura, fino all’arrivo di una donna apparsa dal nulla.

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Finnegan stavolta attenua la distopia ecologica e, partendo dai concetti placebo e nocebo, trova una chiave di lettura nel libro Sleep Paralysis: Night-mares, Nocebos, and the Mind-Body Connection di Shelley Adler. In questa prima coproduzione irlandese – filippina, ambientata tra Londra e Manila, si premura piuttosto di accendere i riflettori sullo sfruttamento capitalista compiuto dal primo mondo verso i paesi più poveri. Racconta sottotraccia di una delocalizzazione industriale finalizzata ad ottenere manodopera a costo irrisorio, costretta a turni di lavoro massacranti, con conseguenze economiche e sociali disastrose. L’inquietudine scenografica esasperata nei progetti precedenti nelle infinite villette a schiera o nel disorientamento di un bosco è affievolita, in Nocebo prendono soprattutto valore le performance attoriali , un’opera di pulitura che comporta la rinuncia al segno rozzo dei simboli ancestrali per facilitare la leggibilità del rituale, con il rischio di risultare meno spontaneo e veritiero. Resta centrale, anche se meno focalizzata, la critica verso modelli di sviluppo alienanti, che fa finta di dimenticare come la conquista del benessere sia spesso dovuta alla prevaricazione, dando ragione a Plauto, homo hominis lupus, per alludere all’egoismo. Un comportamento in grado di divorare la bestia dall’interno che sembra aderire alla profezia marxista di distruzione del potere del capitale. Il regista si preoccupa di distribuire gli indizi attraverso dei flashback di montaggio prima dello svelamento finale, e si serve della progressione drammatica per cambiare i caratteri dei personaggi, lasciandoli in un limbo di ambiguità non molto convincente. Più che un’espiazione il cinema di Finnegan è orientato su un crollo, un reflusso, una ribellione nascosta e sul punto di esplodere. Per riordinare tutto secondo le leggi naturali del caos, spietate e meno ipocrite delle regole umane.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.7
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Il voto dei lettori
3.17 (6 voti)
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