"Noli me tangere" – Ritorno su "300" di Zack Snyder

Quello di Snyder è un cinema in cui la morte non esiste, in fondo c'è un altro tempo per morire, un tempo che non appartiene al cinema… a questo cinema ancora capace di segnare una tensione che incide a graffito i nostri occhi, esposti come sono a un naufragio che bagna con una dolce arroganza la fragilità della nostra esistenza e dei nostri sensi

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Le immagini del film di Zack Snyder, 300, sono attraversate da un fremito di desiderio. Desiderio di essere toccate, trattenute, abbracciate. Di non essere lasciate andare, di non essere lasciate morire, nel loro volontario allontanarsi, lentamente, necessariamente. Zack Snyder, nella sua energica rappresentazione di misticismo, magia demonica e ardore panico, riesce forse a cogliere l'essenza di un cinema che gioca, ormai sempre più, con le passioni, con il loro esporsi al trasparire stesso di una rappresentazione immaginaria che si deforma, privandosi letteralmente di una forma concretamente riconoscibile, per comunicare l'aspirazione a riconoscere ciò che lo sguardo vuole toccare, comprendere. Eppure siamo di fronte ad un cinema che sembra non poter né voler essere toccato.

Noli me tangere, non toccarmi, dunque. Forse perché le gesta eroiche di Leonida e dei suoi trecento spartani possono (ri)vivere solo come attesa di un compimento. Snyder come un "mercante di luce" filma questa attesa, rendendoci "mendicanti di vista". Per raccontare di aver visto, di esserci stati, non ci resta che voltarci a guardare da lontano l'ingresso corporeo nella gloria di Leonida e dei suoi compagni, proprio come Delio mentre si allontana dal campo di battaglia per ritornare a Sparta. Ci si ritrova così di fronte ad un cinema da poter comprendere solo come spoliazione della materia. Un luogo-cinema senza confini in cui il corpo può disegnarsi al di qua e al di là del cinema stesso, nel suo rivelarsi alla friabilità dei nostri sensi.

Cinema dunque in cui la morte non esiste; o meglio cinema in assenza di morte; un cinema che, pur riconoscendo la propria fragilità, si sottrae alla materia per potersi dare (forse una volta per tutte…) come prossimità eventuale e, quindi, presenza a venire. Visita, arrivo, venuta, presenza, incarnazione e con esse la "proiezione" di un'attesa che può restituirne il senso. Cos'altro può essere il cinema se non il desiderio di poter vivere una presenza al di là della rappresentazione e della forma? Il corpo di Leonida si spiega alla morte in un sussulto di vita che squarcia le immagini proprio in virtù della loro assenza, oscene e perverse e appunto per questo affidate a quel fuoricampo che intimamente ci appartiene. Quelli degli spartani, come quelli dei persiani, sono corpi per i quali le categorie umane dello spazio e del tempo non possono fornire immagini adeguate. Cos'altro potrebbe rappresentare altrimenti la ricostruzione dello stretto delle Termopili se non un limite da lasciar scomparire per lasciar continuare a far vivere i corpi là dove li spingono l'amore, la nostalgia e il ricordo?

Né morte né vita, dunque; ma una pace abissale che oltrepassa la ricreazione della materia per restituirci il suo senso più intimo, erratico, scultoreo. Un velo scuro che si stende solo per un istante davanti agli occhi prima di essere lacerato. Strappato via. Proprio come le frecce degli arcieri persiani che lanciate contro gli spartani oscurano per un attimo il cielo prima che la luce ritorni a illuminare il mito. C'è un altro tempo per morire, un tempo che non appartiene al cinema (a questo cinema…); un cinema ancora capace di segnare una tensione che incide a graffito i nostri occhi (occhi che hanno una infinità di prove d'amore e di resistenza da sostenere), esposti come sono a questo naufragio che bagna con una dolce arroganza la fragilità della nostra esistenza e dei nostri sensi.

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